Il direttore di Amnesty International Italia commenta il rapporto annuale dell'associazione che in tutto il mondo si batte per il rispetto dei diritti umani
Eravamo reduci da cinquant’anni di lenta risalita. Ma ora anche sul fronte dei diritti umani il pianeta sembra aver inserito la retromarcia. L’ultimo rapporto di Amnesty International, relativo al 2015, lascia poco spazio ad altre interpretazioni. Quello appena concluso è stato un anno nero per i diritti umani. «Per molti governi l’argomento non esiste, per altri è quasi di intralcio», confessa a Wise Society Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia.
Perché la sintesi dell’ultimo documento ha tinte così fosche?
In alcune aree del mondo persistono da tempo situazioni difficili. Ma la crisi umanitaria s’è acuita negli ultimi mesi: siamo circondati da guerre, genocidi, grandi emigrazioni. E in alcuni luoghi è impossibile portare aiuto alle popolazioni locali. E la stretta internazionale contro il terrorismo ha riportato d’attualità strumenti desueti: come la tortura, le sparizioni, gli arresti forzati.
Quali sono le zone di maggiore emergenza del pianeta?
Congo, Somali, Siria, Burundi e Sud Sudan. Ma non sta meglio la Repubblica Centroafricana. Ma siccome qui sono soprattutto i cristiani ad ammazzare i musulmani, il racconto va fuori dagli schemi della narrazione dominante.
Di chi sono le responsabilità se oggi il mondo appare come una polveriera?
Circoscriverle è complesso, ma gli errori sono diffusi. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non può impiegare quattro anni a varare la prima risoluzione sulla Siria, dov’è in corso una delle crisi umanitarie più gravi al mondo. Stanno sbagliando molto anche i singoli Stati, però: quello che sta accadendo in Europa non lo si vedeva dalla seconda guerra mondiale.
Ce l’ha con chi chiude le frontiere?
I muri che trova chi tenta di risalire dalla Grecia, così come la baraccopoli di Calais, rappresentano i simboli della nostra deriva. Questa è una crisi umanitaria di prima grandezza. Nell’Europa orientale qualcosa di simile s’era visto durante il conflitto nei Balcani, nei Paesi occidentali s’è tornati indietro di settant’anni. L’oltre un milione di rifugiati giunti nel Vecchio Continente nel 2015 meritavano tutto, meno che di soffrire ancora. Il diritto internazionale, con la Convenzione di Ginevra del 1951, impone l’ospitalità per i rifugiati. Ma ormai i Governi violano sistematicamente gli accordi e nessuno sembra accorgersene.
Quanto influisce su questo atteggiamento la ritrovata vitalità del razzismo e della xenofobia?
Dare spiegazioni ai cittadini è necessario, se si vogliono evitare le strumentalizzazioni. Ma per arrivare a capire questo servirebbe avere una classe politica di qualità, cosciente del rilievo degli aspetti etici nella risoluzione dei problemi che riguardano il mondo intero. L’essenza di questo vuoto di potere è il mancato rispetto dei diritti umani, la loro palese e quotidiana violazione.
Crede che prima o poi si verrà da questo stato di perenne urgenza?
La situazione non è destinata a migliorare. Ecco perché è necessario riconoscere di essere di fronte a una crisi che dura da venticinque anni. Fino a che non compiremo questo passo, risulteremo sempre impreparati di fronte a una situazione che rischia di travolgerci.
Eppure di operazioni riuscite è piena la storia recente del mondo della cooperazione internazionale.
«Quando abbiamo deciso di intervenire, lo abbiamo fatto con qualità. I risultati sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti. Penso alla stabilità restituita al Mozambico, alle condizioni di relativa tranquillità che si vivono in Angola e Namibia. Ma di esempi virtuosi ce ne sono anche in Asia e America Centrale: Cambogia, Nicaragua, El Salvador, Honduras. Tutti Paesi al riparo dalle guerre, pur avendo alle spalle anni molto difficili. Anche in Europa ci siamo contraddistinti, sebbene in pochi ricordino come la Macedonia sia stata più volte messa al riparo da una guerra che prosperava ai suoi confini».
Come giudica, nell’emergenza, la risposta «fuori dagli schemi» dell’Italia?
«Negli ultimi abbiamo fatto dei piccoli capolavori: penso all’operazione Mare Nostrum voluta dal Governo Letta, ma anche alla continua opera di salvataggio delle vite e recupero dei corpi che effettuiamo quotidianamente nel Mediterraneo. Fa da contraltare, però, la macchina dell’accoglienza. Finché mancherà la fase di progettazione, continueremo a registrare carenze, soluzioni improvvisate, errori e a non garantire a queste persone la tutela che meriterebbero. Ci è di grande aiuto la società civile vitale, caratterizzata da valori illibati. Quello che fanno ogni giorno le associazioni di volontari e le organizzazioni non governative è un miracolo senza precedenti».
Se potesse far recapitare un messaggio a Matteo Renzi, cosa gli chiederebbe?
«Di smetterla di violare la legge 185 del 1990 che vieta di vendere armi ai Paesi impegnati in conflitti e che violano sistematicamente i diritti umani. E invece l’Italia continua a foraggiare l’Arabia Saudita. Ovvero: dà ossigeno al conflitto che sta dilaniando lo Yemen. L’altro fronte aperto riguarda l’Egitto e la morte di Giulio Regeni. Siamo stati troppo prudenti finora, pur di anteporre gli interessi politici e commerciali all’ottenimento della verità. Inutile stupirsi, dunque, se è passato un mese dall’omicidio e le indagini sono ancora al punto di partenza».
E l’Italia, dentro i suoi confini, a che punto con il rispetto dei diritti umani?
«Molto più indietro di quanto non lo siano altri Paesi dell’Unione. L’Italia deve fermare i femminicidi, introdurre il reato di tortura, proteggere i rifugiati, assicurare condizioni dignitose a chi vive nelle carceri, combattere l’omofobia e fermare la discriminazione e la segregazione etnica in atto nei confronti dei Rom. Una volta assunti questi impegni a livello nazionale, dovrà poi continuare a recitare un ruolo nella lotta contro la pena di morte nel mondo, usare la sua influenza nei confronti del Consiglio di Sicurezza e rispettare gli standard internazionali e nazionali sul commercio delle armi. Le vere emergenze sono altrove, ma ne abbiamo di strada da compiere per definirci un Paese che rispetta i diritti umani».
Twitter @fabioditodaro