L'attore e regista, componente del Comitato etico della Serie B, parla del "Cartellino verde" appena istituito e del suo concetto di etica: nello sport come nella vita
«Il calcio è un potente veicolo comunicativo di gesti positivi, a patto che si riesca a guardare con uno sguardo nuovo, intelligente». La premessa di Gianfelice Facchetti – figlio dell’indimenticato capitano dell’Inter e della Nazionale Giacinto, nonché attore e regista fortemente impegnato nel sociale – è tra quelle che hanno spinto il Comitato etico della Lega di Serie B (di cui Gianfelice è componente con Marino Bartoletti, Chantal Borgonovo, Mogol ed Emiliano Mondonico) a istituire il “cartellino verde”. Al contrario di quello rosso, che sanziona con l’espulsione il comportamento scorretto in campo di un giocatore, il “cartellino verde”, istituito dalla prima giornata di ritorno 2015/16 del campionato di Serie B, premia gesti esemplari di giocatori e dirigenti.
Gianfelice come nasce quest’iniziativa?
Dal desiderio di esaltare e sottolineare comportamenti virtuosi all’interno del calcio che non per forza abbiano per protagonisti i giocatori. Infatti, il “cartellino verde” è allargato anche ai dirigenti del campionato di serie B.
Perché, come comitato etico della Lega di Serie B, avete sentito questa necessità?
In un momento in cui siamo abituati sui giornali e nei processi televisivi post partita a veder stigmatizzato soltanto il lato negativo del calcio, rischiamo di perdere di vista il bello che offre. Si tratta, a volte, di piccoli gesti che si perdono in mezzo al gioco: ci siamo detti che se avessimo il coraggio di sottolinearli si potrebbe cominciare a cambiare la cultura del calcio. Però non si tratta di una iniziativa buonista, perché gli arbitri non sono obbligati ad assegnare il cartellino verde.
Ne è già stato assegnato qualcuno?
L’assegnazione non è pubblicizzata. L’arbitro a fine partita consegna ai delegati delle squadre una busta con il cartellino verde e la motivazione, a fine stagione saranno assegnati i riconoscimenti ufficiali.
Quest’iniziativa rientra in un quadro più ampio della Serie B di attenzione a rispetto, cultura sportiva e responsabilità sociale. Cos’è oggi l’etica nel calcio?
Una cosa semplice. Nel calcio c’è bisogno di chiarezza, lo dobbiamo agli spettatori, parte fondamentale del gioco, complementari a quello che accade in campo. Però c’è l’urgenza di una chiarezza nei messaggi e nelle regole affinché siano rispettate da tutti: giocatori, dirigenti e tifosi. Ognuno deve sapere assumersi le proprie responsabilità invece di demandarle ad altri.
Questo dovrebbe valere dai campionati giovanili alla Serie A…
Sarebbe bello vedere iniziative coraggiose della Serie B, presieduta da Andrea Abodi, come quella del Cartellino verde estendersi dal piccolo campetto alla serie A. Come comitato etico stiamo cercando di darci molto da fare anche nell’avvicinare i professionisti del calcio al tessuto sociale delle città: ci sono giornate in cui i calciatori delle società di serie B incontrano le associazioni che operano con chi rimane ai margini della società».
Come metti in pratica l’etica nella tua vita personale?
Sapendo che se voglio raggiungere un traguardo devo farlo senza prevaricare nessuno, né tanto meno la legge. Non bisogna trovare scorciatoie e sotterfugi, ma agire nel rispetto del bene comune.
Nella tua attività di attore, regista e scrittore ti sei spesso dedicato ai temi sociali. Hai portato il tuo teatro anche all’Istituto dei ciechi di Milano. Che tipo di esperienza è?
Teatro al buio è nato 10 anni fa dopo aver fatto il percorso “Dialogo nel buio” per la mia tesi di laurea. Il buio mi ha folgorato e ho proposto delle rappresentazioni teatrali al buio. Sono stato un pioniere, e oggi Teatro al buio è diventato uno dei punti forti dell’Istituto».
Sei in scena con “Mi voleva la Juve”, racconto di un ragazzo di periferia che sogna il calcio…
È la storia vera di un ragazzo della periferia di Milano che sognava di diventare calciatore e a 14 anni si trova ad affrontare un provino con la Juve. È il modo per raccontare una realtà familiare delicata in una Milano di un po’ d’anni fa in cui il calcio avrebbe potuto rappresentare una via di salvezza. Nel caso particolare non lo è stato, ed è arrivato in soccorso il teatro. Il calcio di cui si parla, però, è quello vissuto in strada o all’oratorio, non certo quello di oggi delle scuole calcio.
Parliamo di una società in cui le distanze erano diverse, si era più disposti a conoscere l’altro, contro quella odierna in cui invece si creano solchi enormi. Un esempio è l’atteggiamento nei confronti dei migranti. Cos’è accaduto nel frattempo?
Oggi il distacco dovuto anche a un eccesso di comunicazione su cose e inutili. Nonostante il nostro delirio di onnipotenza noi uomini siamo limitati, possiamo porre attenzione solo a un numero limitato di cose. Il problema della tv è che, magari, dopo la foto del bambino morto sulla spiaggia, si parla subito di qualcosa di diverso e spesso stridente. Così nella testa il gossip si affianca al dramma dei migranti che scivola in secondo piano e diventa più importante chi va a raccontare a “Porta a porta” di essere stato messo fuori gioco dal mondo della televisione».
Cosa potrebbe far cambiare le cose?
Difficile saperlo. Ma se persone che godono di potere emulativo, come i campioni dello sport, riuscissero a far arrivare (come a volte fanno) messaggi positivi si potrebbero mettere in moto movimento virtuosi.