Il neo presidente di Slow Food Italia traccia le linee del prossimo quadriennio e dice «no agli Ogm, anche se fosse dimostrato che facciano bene»
Il valore del lavoro dei contadini, l’affermazione di nuovi modelli di produzione del cibo e la partecipazione di tutti i soci alla vita dell’associazione sono stati i tre capisaldi che hanno portato Gaetano Pascale alla presidenza di Slow Food Italia. Agronomo campano, 45 anni, due figlie, componente del consiglio nazionale e della segreteria nazionale dell’associazione che partendo da Bra ha contagiato il mondo con i suoi valori, Pascale è il primo presidente italiano eletto e non designato. «Questa è una grande responsabilità, ma anche una garanzia perché è meno delegante essere eletto da un’assemblea che si rende disponibile a dare un contributo alla realizzazione degli obiettivi che essere nominato dai vertici», spiega Pascale già al lavoro per portare avanti il suo programma.
Qual è il punto saliente del suo programma?
«L’affermazione di modelli di produzione del cibo più sostenibili. È paradossale il fatto che si parli di agricoltura e non di agricoltori. Oggi purtroppo il legame non è così scontato perché tanta voce in capitolo ce l’hanno i proprietari dei mezzi di produzione (assicurazioni e banche per esempio) e l’agricoltura intensiva che fa prevalere l’approccio produttivistico, ovvero quella in cui l’obiettivo è produrre di più. Noi vorremmo fare un passo indietro, che poi sarebbe uno slancio in avanti, verso un’agricoltura che privilegi la figura dell’agricoltore, le produzioni di piccola scala, la biodiversità, la produzione solidale e l’accesso al cibo buono, pulito e giusto a un numero sempre maggiore di persone».
Come si concilia questo tipo di produzione agricola dai costi più elevati di quella intensiva con la crisi economica che mette in ginocchio le famiglie italiane?
«In Italia c’è uno spreco alimentare che pesa tra i 4 e gli 8 miliardi di euro all’anno. Riducendo gli sprechi ogni famiglia avrebbe un budget in più per l’acquisto di cibo di qualità. Naturalmente bisognerebbe anche ridurre il prezzo del cibo buono ma, in questo caso, sono le leggi di mercato a operare quindi servirebbe un’offerta più alta. Quest’ultima potrebbe crescere con un modello diffuso di agricoltura di piccola scala che, automaticamente, abbasserebbe costi di trasporto e di distribuzione e il prezzo al consumatore. In ogni caso non capisco perché non ci si lamenti dell’aumento del prezzo dei telefonini piuttosto che accanirsi sul costo del cibo di qualità».
Sugli Ogm lei ha detto: “Direi di no al loro utilizzo anche se fosse dimostrato che fanno bene alla salute”…
«A parte che il Tar del Lazio nel pronunciarsi sul divieto della coltivazione del mais transgenico ha ricordato che non esistono studi scientifici che accertino l’innocuità delle specie coltivate con l’utilizzo di sementi Ogm, si produrrebbero danni ambientali ed economici oltre che un’ulteriore perdita di biodiversità. Intanto con l’utilizzo massivo di sementi Ogm si ridurrebbe il patrimonio genetico del pianeta con l’aumento del rischio in caso di epidemie e infestazioni, poi gli agricoltori sarebbero costretti ogni anno ad acquistare i semi senza possibilità di quella differenziazione del prodotto che è un fattore di competitività. Infine ci sarebbero importanti ricadute occupazionali perché il lavoro dell’uomo sarebbe ridotto al minimo».
Gli agricoltori, dal canto loro, dovrebbero essere più attenti all’utilizzo dell’acqua…
«Questo è uno dei temi importanti messi sul tavolo nell’ultimo congresso di Slow Food (quello dell’elezione, ndr). La produzione agricola intensiva ha bisogno di un maggiore consumo di concimi e quindi di acqua. Se, invece, si riuscisse a distribuire la produzione occorrerebbe soltanto una maggiore razionalizzazione dell’utilizzo dell’acqua che significa, per esempio, riportare le coltivazioni nel loro contesto e, qui, torniamo al rispetto delle colture tradizionali».
Slow Food vuole affrontare anche il tema del benessere animale che non significa che bisogna diventare tutti vegetariani…
«Gli integralismi non fanno mai bene. Premesso che si dovrebbe ridurre il consumo di carne perché la popolazione mondiale tende ad aumentare e non è sostenibile produrre carne per tutti, la questione riguarda le modalità degli allevamenti. Anche in questo caso le scorciatoie per l’allevamento ad altissima produttività stanno nell’immobilità dell’animale che, però, fa sì che lo stesso si ammali e debba essere curato. Inoltre gli animali sono esseri senzienti e il problema diventa etico perché bisogna assicurare che vivano la loro vita in maniera ottimale anche se destinati al consumo o alla produzione di prodotti derivati».
Slow Food ha annunciato la sua “partecipazione critica” a Expo2015. Il Salone del Gusto, in programma nel mese di ottobre, come si occuperà di Expo e dei suoi temi?
«Slow Food ha firmato un protocollo per portare alcuni temi all’interno di Expo 2015. Non vorremmo però che l’esposizione diventasse soltanto una vetrina commerciale senza mettere al centro i problemi della politica del cibo e dell’alimentazione. Poi va da sé che ci saranno anche i produttori del cibo buono, pulito e giusto».
Gli stessi, produttori e contadini, che animeranno dal 23 al 27 novembre il Salone del Gusto e Terra Madre. Qual è il vostro impegno nei loro confronti?
«Il nostro impegno è quello di portare al Salone produttori che s’impegnano sul fronte della qualità, del rispetto dell’ambiente, dell’etica della produzione che vengono selezionati dalla nostra rete associativa. Anche la trasparenza nella formazione del prezzo diventerà al più presto un criterio di selezione dei produttori».
Un altro degli argomenti sul tavolo per il prossimo quadriennio è arrivare a un disciplinare di legalità. Cosa significa nel concreto?
«Legalità nella produzione del cibo significa almeno quattro cose: non favorire le agromafie utilizzando denaro di dubbia provenienza, utilizzare manodopera regolare, controllare la trasparenza dei mercati perché il fenomeno del prezzo imposto dalla criminalità è un fenomeno diffuso, l’utilizzo del suolo in maniera adeguata. Vorremo inserire questi punti in un disciplinare da studiare insieme a una task force nella quale coinvolgere altre associazioni come Libera o l’Arci e altre sensibili a questi temi per arrivare, entro due o tre anni, a un marchio specifico».
Se dovesse mettere in una scala gerarchica questi punti, quali starebbero in cima?
«Considererei fallimentare il mio mandato se Slow Food non riuscisse a dare risposte adeguate al mondo agricolo che fa riferimento ai nostri valori. Concretamente vorrei che i 200 presìdi attuali diventassero 500 e che i 2.000 produttori diventassero 10.000 perché vorrà dire che più persone si saranno posti i nostri stessi obiettivi».