Wise Society : Francesca Crespi: in famiglia abbiamo la stoffa
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Francesca Crespi: in famiglia abbiamo la stoffa

di di Francesca Tozzi
30 Marzo 2010

Affonda le radici nel passato, ma guarda al futuro. Storia e progetti di un'azienda tessile molto naturale, che è passata dal lino alla canapa e ora esplora il bambù. Sognando una moda a chilometro zero

Crespi 1797 per molti è sinonimo di lino biologico. In realtà è molto di più: è una moderna azienda del tessile che lavora fibre vegetali per tessuti naturali e che collabora con le più prestigiose maison internazionali. È anche un’impresa di famiglia, con profonde radici che affondano nel territorio, che ha partecipato alla rivoluzione industriale e ha avuto il coraggio di fare scelte controcorrente. Fa parte dell’associazione “Les Hénokiens“, che riunisce in tutto il mondo le imprese di famiglia che hanno più di 200 anni. Non a caso l’amministratore delegato, Francesca Crespi, porta il nome dei suoi antenati.

Fibre di Canapa

Fibra di Canapa, Foto/Corbis

Cosa significa per lei avere una storia familiare così importante?

Significa legame con il territorio ma anche una forte impronta etica nel lavoro: quello che viene passato di generazione in generazione non è solo il nome della famiglia, ma tutta una serie di valori a lungo spettro. Un passato e un’identità cui fare riferimento rappresentano una base solida anche nei momenti di crisi: lo dimostrano quelle aziende, cresciute grazie alla finanza più che al lavoro, spuntate come funghi e di grande immagine per gli importanti investimenti in comunicazione.

A modo vostro siete stati dei pionieri…

Francesca Crespi. Foto di Ricardo Francone

Francesca Crespi. Foto di Ricardo Francone

Siamo partiti con il cotone, con cui realizzavamo tovagliati, lenzuola, tessuti e tute da lavoro. Negli anni ’80, quando dalla Grecia e dalla Turchia arrivavano capi già pronti a basso prezzo, siamo entrati con il lino nel mondo dell’abbigliamento donna. Da oltre dieci anni abbiamo cominciato a lavorare la canapa. Infine, abbiamo inserito il bambù: in Giappone c’è tutta un’antica cultura di fibre naturali che noi non abbiamo; viene lavorato come il lino tramite macerazione della fibra, ma risulta più brillante nella tintur; è traspirante e anallergica e ne abbiamo sperimentato la leggerezza su camicie e abiti; insomma, funziona e il prezzo finale è inferiore.

Perché la scelta del biologico?

L’attenzione all’ambiente risale alle origini della nostra azienda: da Busto a Ghemme abbiamo sempre cercato luoghi ricchi di acqua perché i nostri telai fossero mossi da energia pulita; siamo stati fra i primi in Valsesia a dotarci di impianti di depurazione delle acque. Dal 2004 proponiamo il lino da agricoltura biologica per il quale siamo certificati da Icea. Il filato viene dai polder olandesi bonificati, terre vergini e coltivate utilizzando questo metodo ecosostenibile. Non usiamo metalli pesanti come nichel, rame e cromo perché vogliamo che il capo sia naturale dal campo alla mano finale: per il finissaggio trattiamo il tessuto con aloe vera che ammorbidisce la fibra e rilascia sostanze che fanno bene alla pelle per le sue proprietà di freschezza e idratazione. E dato che lavorando con le griffe non si può fare a meno del colore, abbiamo sperimentato anche sul colore naturale recuperando alcune tinture vegetali che si usavano nel Rinascimento italiano: la pianta della robbia, per esempio, da cui si ricavava il rosso. Il colore risulta vivo e non omogeneo, con un sapore antico. Il passato in realtà è ricco di storia, di suggestioni e di spunti da cogliere.

Anche la ripresa della canapa fa parte di questo recupero delle tradizioni italiane?

Sì. La canapa in effetti era considerata una fibra povera. Come la ginestra, fu massicciamente usata durante il fascismo perché veniva coltivata e lavorata tutta in Italia e rispondeva allo spirito dell’autarchia. In seguito, con il boom delle fibre sintetiche, le naturali furono messe da parte, ma la canapa oggi è stata riscoperta per le molte qualità: porta ossigeno al terreno, ne aumenta la resa e lo stabilizza con le radici. E poi, la si utilizza tutta. Quando negli anni Novanta Armani cominciò per primo a spingere sul pedale dell’ecologia, l’idea era quella di costruire con la canapa una filiera trasversale per la produzione di tessuto, olio, farine e carta: un progetto che avrebbe consentito al Consorzio Canapa Italia il rilancio di una filiera davvero “made in Italy” ma che non poteva ancora contare su consumi sufficienti per sostenerlo. Oggi sono molto più apprezzati i valori aggiunti delle fibre naturali, non solo nel tessile: gli scarti del lino e della canapa, per esempio, sono usati nell’edilizia per la realizzazione di pannelli grazie alla loro leggerezza e alle capacità termiche isolanti.

I cinesi rappresentano un problema?

L’invasione del lino cinese lo ha trasformato in una commodity svalutandone l’immagine; nello stesso tempo, l’offerta di capi già confezionati a basso prezzo è necessaria a coprire una larga fascia di mercato. I consumi del pronto moda sono veloci; non si riconosce né si apprezza più un lino di qualità. Ma è proprio su questa che noi continuiamo a puntare producendo in Italia; si inizia a percepire una certa sensibilità nei confronti delle fibre naturali e la gente comincia a chiedersi come vengano realizzati e colorati i capi che indossa.

Un suo progetto per il futuro?

Sarebbe bello riuscire a realizzare il chilometro zero nel tessile come nel food. La moda è una macchina da guerra che deve garantire margini e ritorni, dove il ricarico del prezzo non è dato tanto dal pregio della materia prima ma dalla comunicazione del brand, dagli eventi, dalle sfilate: un sistema sovradimensionato che funziona ma che non esclude altre vie. Penso a una maggior collaborazione con chi condivide la nostra visione, a partire da tessitori e confezionisti che potrebbero mettere insieme macchinari e sistemi produttivi, tecniche e segreti del mestiere. Il tutto è basato sulla coesione: i consumatori interessati si organizzerebbero in gruppi d’acquisto, i giovani stilisti avrebbero spazi di lavoro e gli agricoltori troverebbero nella solidità del sistema uno stimolo per continuare a coltivare le fibre vegetali. Si abbatterebbero così i ricarichi di prezzo fra un passaggio e l’altro.

Se dovesse indicare un disvalore che ha frenato finora lo sviluppo umano e sociale e un valore che, riscoperto e valorizzato, potrebbe migliorare davvero la qualità della vita?

Il disvalore è l’individualismo tipico italiano. È molto difficile fare sistema nel nostro Paese: gli imprenditori sono gelosi delle proprie idee, hanno paura che ci sia sempre qualcuno pronto a rubarle. Si pensa che il successo e la ricchezza siano possibili solo a scapito di altri. I valori che possono invertire questo trend sono la collaborazione e la conoscenza; abbiamo un patrimonio culturale fatto di cibo, arte e paesaggi, ma anche di tante piccole realtà e storie imprenditoriali importanti che si stanno perdendo. Questo è il vero made in Italy, la ricchezza che vale la pena di trasmettere alle generazioni future.

Crespi, foto aerea dell'azienda

Foto Crespi

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