Più maturo rispetto al passato, più attento a ciò che compra. Ma anche in grado di influenzare con il suo comportamento le scelte delle aziende produttrici
E’ questo l’identikit del consumatore verde spesso opinion leader e blogger che disegna Fabio Iraldo, docente di Management e Tecnologia alla Bocconi e docente di Economia e Gestione delle Imprese presso l’Istituto Management (SuM di Pisa).
Wisesociety.it lo ha incontrato durante i lavori del convegno Wigreen 2014 svoltosi a Milano il 13 e 14 febbraio scoprendo che il consumatore-cliente-opinionista non è solo in grado grazie alle sue conoscenze di indirizzare le proprie scelte d’acquisto. Ma anche di influenzare le aziende.
Il consumo delle risorse nel pianeta non è più sostenibile. Oggi più che mai il consumatore gioca un ruolo fondamentale: quanto contano le sue scelte?
Sono determinanti nella misura in cui i mercati si stanno diversificando sempre più. Il green è diventato una leva di differenziazione formidabile per le aziende che si sono lanciate sul tema della sostenibilità e si stanno organizzando per trovare nicchie di competitività da sottrarre ai concorrenti. Quando un’azienda vede una nuova opportunità di mercato la persegue investendo e modificando i propri processi produttivi. Questo fa sì che il consumatore attento all’ambiente abbia delle armi da mettere in azione per poter orientare i comportamenti delle aziende.
Come può il consumatore cambiare il trend?
Deve riuscire a discernere a selezionare i prodotti sul mercato e quindi spostare gli equilibri verso aziende che lanciano prodotti innovativi che rispondono alle proprie esigenze. Se una delle esigenze è quella di ridurre l’impatto ambientale il consumatore deve imparare a perdere le inibizioni e se vede un prodotto nuovo anche se non è quello che è abituato a comprare ma che da garanzie rispetto ad etica e responsabilità deve imparare a innovare e a comprarlo. Tutto il resto viene da sé: nel momento in cui gli altri concorrenti vedono che un’azienda green ha avuto successo, si spostano gli equilibri sul mercato e si scatenano processi emulativi come quello che è avvenuto nel settore della carta. Nel giro di 4 o 5 anni tutte i più grandi produttori in Europa hanno sviluppato linee green che sul mercato hanno avuto successo con un effetto domino.
Questo è sufficiente per far cambiare la mentalità anche del produttore?
Se il consumatore fosse in grado di muovere davvero le quote di mercato sì. Il problema è che il consumatore non riesce a mettere in atto queste tendenze da un lato perché è restio all’innovazione, dall’altro a causa di alcune dinamiche di prezzo che bloccano la transizione verso prodotti green che hanno prezzi più alti. Il problema vero è che i prodotti tradizionali più inquinanti sono più competitivi dei green perché non sostengono alcuni costi. Se qualcuno non fa in modo che alcuni concorrenti non abbiano a sostenere dei costi significativi, ci sarà sempre un gap dal punto di vista competitivo che costituisce una barriera psicologica per il consumatore: quello del prezzo superiore.
Come il consumatore può difendersi dal bombardamento dei prodotti fintamente green o che si sono dati una mano di vernice?
Il consumatore di oggi è ormai in grado di difendersi con la conoscenza. Secondo le indagini le aziende pensano che il consumatore sia abbindolabile. Oggi siamo passati ad una situazione diametralmente opposta: qualunque cosa dica un’impresa sul green non viene creduta dal consumatore. Se un’impresa dice cose vere deve dimostrarlo perché dall’altra parte c’è una tendenza a colpevolizzare l’azienda accusandola di dire delle frottole per vendere un prodotto.
E’ vero che sono le donne che comprano più prodotti green? Perché?
Non tutte ma quelle di età compresa tra 35 e 45 anni sposate e con figli piccoli. E’ quel target che gli esperti di marketing definiscono “mamma responsabile”. Persone che hanno delle giovani generazioni in casa e si sentono responsabilizzate nel garantire un futuro ai propri bimbi. E quindi operano di conseguenza sul mercato: sono molto più sensibili alla tematica e sono disposte ad investire nel futuro dei loro figli provenendo da una generazione che la tematica dell’inquinamento ha cominciato a metabolizzarla abbastanza presto.
L’Introduzione dell’impronta ambientale può essere una guida all’orientamento così come l’introduzione dell’etichetta energetica?
Io penso di sì perché parto dal presupposto che il consumatore sia consapevole. C’è da dire che ad oggi ci stanno credendo moltissimo sia le imprese che le istituzioni. Nell’ultimo anno il Ministero dell’Ambiente in una situazione in cui non ci sono molti fondi pubblici, ha messo a disposizione delle aziende 6 milioni di euro per calcolarne l’impronta ambientale dei propri prodotti. C’è un grande investimento istituzionale e le aziende ci credono. L’unico dubbio è che l’indicatore non sia così facilmente accettabile dal consumatore: cioè sarà il consumatore così maturo e consapevole da accettare di far guidare le proprie scelte di consumo da un numero, tra l’altro non facile da comprendere? Forse bisogna semplificare lo strumento oppure trovare una soluzione molto più concreta che traduca quei dati in fenomeni più tangibili. In questo modo il consumatore può collegare immediatamente il beneficio ambientale.
Questo strumento potrebbe far vincere al consumatore lo scetticismo di cui parlavamo prima?
Sì se è opportunamente certificato e supportato da dati credibili con un’aura istituzionale che lo garantisce. In Italia abbiamo l’esperienza dell’ecolabel europeo, strumento di certificazione istituzionale che tra la fine degli anni ’90 e i primi anni del 2000 ha funzionato perché il consumatore si è fidato della legittimazione delle istituzioni europee che di fatto diceva: compra questo prodotto e non quell’altro.