Un insegnante precario di Roma decide di andare a fare il maestro per qualche mese in Senegal. Un'esperienza forte e ricca che lo porta a fondare il progetto "Robin Hood" a favore dei bambini africani talibè, ma gli fa anche capire di non voler abbandonare l'istruzione pubblica in Italia. Perchè questo è il posto dove è convinto di poter dare il meglio di sé, insieme a genitori e studenti
Quella di Emiliano Sbaraglia (insengnante di Lettere nato a Roma nel 1971) è una storia di vita bella e coraggiosa. Stanco di essere precario, nel 2009 decide di andare a fare il maestro in Senegal. L’esperienza è così importante che ci scrive un libro, Il bambino della spiaggia (Fanucci, 2009), e l’Africa entra a far parte della sua esistenza in modo stabile.
Per trovare il modo di dare continuità al progetto con quei bambini che oramai lo aspettano, fa di tutto, sempre con ottimismo. Tra le tante attività, lo scrittore (ha già pubblicato cinque libri), il giornalista per riviste, quotidiani e radio, l’organizzatore di manifestazioni culturali con case editrici. Ma il suo sogno, oltre all’Africa, rimane sempre l’insegnamento, mestiere che ritiene di saper fare meglio di tutto.
La sua è stata quasi una scelta di emigrazione al contrario: ci racconta perché ha deciso di fare il maestro proprio in Africa?
L’occasione, piuttosto casuale, è nata nell’estate del 2009. Durante un programma alla radio, in cui tuttora lavoro, mi era capitato di parlare di un centro di accoglienza scolastica per bambini a sud di Dakar. Sono partito per il Senegal nell’estate di quello stesso anno per un reportage con un amico fotografo e in autunno ci sono tornato come coordinatore didattico. Ci sono rimasto da ottobre a dicembre. Proprio nel 2009, infatti, dopo nove anni di insegnamento precario nei licei scientifici della periferia romana, non avevo più avuto convocazioni dalla scuola. In quei tre mesi ho girato diverse scuole a sud di Dakar in una comunità composta da otto, nove villaggi di pescatori e che conta 75 mila abitanti. Non sono andato lì con presunzione, mi sono messo seduto tra i banchi di scuola con la volontà di capire.
E che problemi si è trovato di fronte?
I problemi più importanti sono la povertà, magari non così estrema come in altri paesi dell’Africa nera, ma comunque presente e un tasso di corruzione molto elevato. Poi aspetti relativi all’organizzazione del centro di accoglienza. Ho trovato classi numerose fatte di ben 80 o 90 bambini, metodi didattici duri e drastici su cui ho discusso a lungo in conferenze che ho organizzato proprio con gli insegnanti locali. Ma alle mie osservazioni mi sono sentito rispondere “voi negli anni Cinquanta e Sessanta che metodi usavate? Lasciateci crescere, visto che siete rimasti qui fin troppo a lungo a colonizzarci”. Come dar loro torto?
Gli aspetti positivi, invece?
Il valore della scuola lì è molto forte, come da noi parecchi decenni fa. L’insegnante ha un ruolo fondamentale nella società e gode di rispetto per quello che fa: la scuola è vista come strumento di progresso individuale e collettivo. Il centro di accoglienza dove ho collaborato fa un lavoro didattico eccezionale: ha la funzione di recuperare chi non va a scuola, pur con mille difficoltà. I due maestri senegalesi, uno musulmano e uno cattolico, che fanno alfabetizzazione in lingua francese, vanno a cercare in spiaggia i bambini (spesso i piccoli alunni finito il lavoro di pesca insieme ai padri rimangono a vivere in riva al mare) per portarli a scuola, cercando di convincere prima di tutto i genitori dell’utilità dell’istruzione. Le donne, le madri sono sicuramente più sensibili al problema rispetto agli uomini.
Che cosa ha imparato da questa esperienza e che significato ha avuto per lei?
Io mi sono legato anima e corpo ai bambini talibé, figli di genitori poveri con tanti figli, che vengono dati in affidamento ai marabut, sacerdoti delle leggi coraniche. Si tratta di un’altra categoria ancora, rispetto ai ragazzini della spiaggia. Va detto che i senegalesi considerano una piaga sociale questa dei talibé, 100 mila solo a Dakar. Hanno da 5 a 15 anni e vivono in scuole coraniche, luoghi spesso diroccati, dove studiano il Corano per qualche ora al giorno, ma da cui escono ogni giorno per andare a mendicare. La sera tornano e devono portare riso, zucchero e soldi. Quelli di cui mi occupo io da circa due anni, cercando di tornare in Senegal non appena ci riesco, sono circa 60 bambini appartenenti a due villaggi che, un giorno alla settimana, vanno al centro di accoglienza dove giocano, fanno la doccia, e su mia sollecitazione, riescono anche a mangiare. L’ultima volta che sono stato lì, a febbraio scorso, ho organizzato un torneo di calcio. Detto così sembra una cosa semplice, invece significa prima di tutto convincere i marabut, e mettere d’accordo tra quattro diverse categorie di bambini (della scuola pubblica, del centro di accoglienza e dei talibé dei due villaggi). Ho portato 60 divise con scritto talibé comprate con il denaro che ho raccolto tra gli alunni delle scuole italiane, dove sono andato a presentare il mio libro, e che mettevano i soldi nello stesso secchiello usato dai talibé per chiedere l’elemosina.
Che cosa si dovrebbe fare allora proprio per migliorare le cose nella scuola pubblica?
La scuola pubblica deve cambiare perché non funziona più: sia nei suoi meccanismi sia perché il mondo sta cambiando. Parto da una critica: il ridimensionamento delle risorse finanziarie destinate a questo settore. Altri Paesi europei, pur nella crisi, hanno continuato ad investire in scuola e ricerca di base. Quindi direi il primo punto è l’investimento e, a seguire, il controllo della spesa sino all’ultimo centesimo. Per fare un esempio concreto, perché lo stipendio di un professore universitario deve essere tanto superiore rispetto a quello di un maestro di scuola elementare? Anche se si tratta di due mestieri diversi non possiamo trovare un po’ più di equilibrio? Un altro aspetto riguarda il cambiamento della didattica. La scuola che verrà dovrebbe creare corsi e proposte diversi, innovativi, dove dare risposte a chi ha bisogno di istruzione, senza distinzione del colore della pelle, e questo vuol dire semplicemente aggiornamento didattico. Un’altra idea concreta riguarda l’introduzione di giovani insegnanti nella scuola affiancandoli magari a professori esperti che hanno una solida cultura di base.
Rispetto alla sua esperienza di insegnante, quale pensa sia il compito di un educatore oggi?
Ecco, in Senegal i maestri si chiamano proprio educatori e questo la dice lunga… tornando a noi, fare l’insegnante è un compito difficile, impegnativo. Quando dico “la scuola siamo noi”, che è anche il titolo di un mio libro, intendo dire che il mondo della scuola coinvolge tutti, non è un settore a se stante, ma dentro al quali ci sono studenti e insegnanti insieme alle loro famiglie. Il ruolo dell’insegnante-educatore non si ferma solo all’interno della classe ma si si dovrebbe allargare a un tessuto sociale più vasto. Andare a scuola ogni mattina a insegnare vuol dire anche presentarsi e vestirsi in modo decoroso, cercare di essere di buon umore perché significa avere rispetto dei ragazzi, a cui non sfugge nulla.
Quali sono i valori importanti da recuperare nella scuola per dare un futuro migliore alle nuove generazioni?
Primo: rispetto di se stessi e rispetto per gli altri, attraverso un confronto continuo e un reale interesse verso i loro problemi. Le ideologie sono finite, è sulle idee anche diverse, che invece bisogna confrontarsi. E questo vale per affrontare tutto a scuola, dal più piccolo aspetto della vita quotidiana alla grande idea filosofica. Secondo: responsabilizzazione. Piero Gobetti a 18 anni diceva che la scuola, prima che una questione di riforme è una questione di individui. Questo credo sia il modo migliore per proporsi in classe. L’insegnante con i ragazzi costituisce un gruppo di lavoro dove ciascuno, sia studente o insegnate, ha un ruolo da svolgere e responsabilità da assumere. E ancora, è importante dimostrare a cosa serve studiare. Ad esempio imparare bene il latino, permette di capire meglio i meccanismi di una lingua straniera nel momento in cui sarà necessario impararla, magari per lavoro. E i cinque gradi dell’ars oratoria di Cicerone costituiscono il metodo con cui Obama ha vinto le elezioni. Se lo racconti e lo fai capire, i ragazzi non lo dimenticheranno mai.
L’integrazione tra italiani e giovani del Nord Africa passa anche attraverso la scuola: con quali strumenti si potrebbe favorirla di più all’interno delle classi?
Rispondo con la mia esperienza. Già dieci anni fa, quando insegnavo a Roma in un quartiere periferico, nelle classi la metà degli studenti era costituita da stranieri. Ma erano sempre i genitori a sollevare questioni e problemi a causa delle diverse provenienze. Ai ragazzi non importava affatto. Spetta agli adulti, cercare di organizzare le differenze. E poi piuttosto che di integrazione basta parlare di convivenza nel rispetto delle leggi. Chi le trasgredisce, sia esso straniero o italiano, ne dovrà pagare le conseguenze. Però cerchiamo di partire con una politica di accoglienza e non di esclusione a priori, perché non dimentichiamolo… se siamo nati in Italia è solo un caso.
Come vede il futuro dei ragazzi che oggi stanno sui banchi di scuola?
Lo vedo bene perchè loro sono il nostro futuro. Sono ottimista perché la forza della storia cambierà le cose e perché se tra qualche anno un italiano avrà come migliore amico un cinese, gli steccati di fatto saranno caduti. Le rivoluzioni del Nord Africa sono nate grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, il villaggio globale esiste e i quindicenni di oggi, che si stanno formando ora nella scuola, sono quelli che potranno cambiare il mondo.
Ha un sogno, un progetto che vorrebbe ancora realizzare?
Nei prossimi due mesi, presso il liceo scientifico Amaldi di Tor Bella Monaca a Roma, un istituto superiore che conta ben 1400 studenti, terrò un corso di italiano per ragazzi di origine straniera, ma tutti nati in Italia, che sono stati segnalati per difficoltà con la grammatica. Un esempio di quello che dicevo prima: affrontare problemi nuovi con una didattica diversa, sempre stando attenti a non creare classi separate. E poi, vorrei continuare a poter andare in Senegal e dare continuità al mio progetto che ho chiamato Robin Hood, con i bambini talibé. Per questo ho anche comprato un terreno dove vorrei costruire una specie di spazio di accoglienza con docce, sedie, tavoli e materassi e dare ai ragazzi la possibilità di lavarsi e riposarsi lì.
Ma continuerà sempre a fare l’insegnante?
Certo, pur continuando con il mio progetto in Africa, quello che vorrei fare è sempre l’insegnante in Italia perché mi piacerebbe contribuire al miglioramento del mio Paese, anche se mi sento cittadino del mondo. È proprio nelle aule della scuola pubblica, infatti, che penso di poter dare il meglio di me.