Il Coronavirus ci ha portato via Luis Sepúlveda, un grande scrittore e un grande uomo. Noi lo salutiamo così, con un’intervista che aveva rilasciato a Wise Society qualche tempo fa.
Il Coronavirus ci ha portato via un grande scrittore e un grande uomo. Noi lo salutiamo così, con un’intervista che aveva rilasciato a Wise Society qualche tempo fa. «Sento il bisogno di dedicarmi alle ferite dell’Umanità», aveva detto. Cercheremo di portare avanti la sua missione con la stessa forza. Qui sotto l’intervista.
«Per un cittadino europeo è difficile capire cosa voglia dire vivere in un Paese dove l’articolo 1 della Costituzione non dice “Tutti i cittadini sono uguali”, ma “Il modello economico del Cile è intoccabile”. È complicato comprendere cosa significhi vivere dove la Sanità e l’Istruzione sono private e dove, se non puoi pagare, non puoi curarti e i tuoi figli non possono andare a scuola». Non può non parlare del suo Cile, della dittatura, della Storia e di diritti umani e dell’Umanità in generale, Luis Sepúlveda, incontrato da wisesociety.it a Catania durante la presentazione della tappa conclusiva della rassegna itinerante promossa dall’assessorato regionale al Turismo e organizzata da TaoBuk, Paesaggi di mare, nel corso della quale lo scrittore, regista, giornalista, sceneggiatore e attivista cileno, oltre a ricevere il Premio Sicilia ha presentato in anteprima nazionale il suo ultimo romanzo “La fine della storia” (Guanda edizioni). Sepúlveda, che ha lasciato il suo Paese nel 1977 dopo un’intensa stagione di attività politica contro il generale Pinochet, ha vissuto la prigionia e l’esilio, è stato in tanti Paesi dell’America latina a fianco delle popolazioni che si battevano per la propria libertà, ed è potuto rientrare in Cile solo nel 1989. Oggi, pur essendo naturalizzato francese e vivendo in Spagna, nelle Asturie, mantiene un forte legame con il suo Paese.
Qual è la situazione del suo Cile, oggi?
Apparentemente, la dittatura è finita, ma permane nell’ingiustizia sociale. Tutto è stato privatizzato e di fatto si è assistito a una sorta di patto segreto che, addirittura, vieta di far conoscere i nomi dei responsabili dei delitti di Stato con l’assurda motivazione di non violare la dignità delle vittime. Nel Cile, che fino al 1973 era una grandissima potenza mondiale, esportatrice di tessile e rame, oggi non ci sono fabbriche e tutto è in mano al genero del dittatore, tra i venti uomini più ricchi del mondo. Insomma, è stata negoziata la fine della dittatura è stato firmato una sorta di “patto lampedusano” (riferimento alla celebre frase del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”).
Lei ha sempre mostrato una particolare propensione per il Sud del Mondo. Perché?
Il Sud del mondo fa parte della mia geografia sentimentale. Sarà per la mia nascita, sarà per la mia esperienza di vita, ma io nel Sud del mondo mi sento bene, mi sento benvenuto. Proprio come in Sicilia, dove il senso dell’ospitalità è davvero straordinario si sta dimostrando davvero una grande terra di accoglienza e tolleranza.
Come è nata l’idea del suo nuovo romanzo?
Il libro nasce come sequel di “Un nome da torero”, pubblicato 12 anni fa e dal mio bisogno di trovare un modo per raccontare una parte di storia importante dell’America latina e del mondo intero. Ho sentito l’esigenza di risvegliare Juan Belmonte, ex guerrigliero cileno protagonista del mio vecchio romanzo per vedere che fine aveva fatto. Ammetto che in passato ho spesso considerato le autobiografie un po’ banali, ma alla fine ho, in qualche modo, dovuto cedere all’esigenza di raccontare quello che mi è più familiare.
In cosa il protagonista del romanzo le somiglia?
Con Belmonte abbiamo condiviso una parte di vita, lo considero un po’ un compagno di cammino. Belmonte ha combattuto contro il regime di Pinochet come ho fatto io; in Bolivia ha militato tra le file dell’Esercito di Liberazione Nazionale, come ho fatto io; è stato guardia personale del presidente Salvador Allende, come lo sono stato io. Oggi vive tranquillo in una casa sul mare, come faccio io ed è un uomo sopra i 60 anni, che si affatica facilmente, proprio come me.
Un romanzo nero che parla di storia e uomini. In questo libro ha abbandonato il tema della natura ferita che le è stato sempre tanto caro nei libri e nella vita con la sua attività al fianco di Greenpeace?
Sentivo il bisogno di dedicarmi alle ferite verso l’Umanità questa volta e l’ho fatto con un libro a cui ho lavorato per due lunghi anni.
Il tema della natura violata era anche alla base del libro per bambini “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” e di altre sue favole. Com’era arrivato alla decisione di scrivere per i più piccoli?
Ho deciso di scrivere libri per bambini quando, circa vent’anni fa, sfogliandone alcuni, mi sono reso conto che non trattavano i bambini con rispetto. Sono esseri umani ancora in erba ma non vuol dire che non capiscano e che debbano essere trattati con superficialità o con sufficienza.
Cosa vuol dire per lei scrivere?
Per me raccontare è sinonimo di resistere.