Wise Society : Quello che i “signori del cibo” non vogliono farci sapere
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Quello che i “signori del cibo” non vogliono farci sapere

di Michele Novaga
17 Marzo 2018

Ce lo spiega il giornalista Stefano Liberti che in un libro ha ricostruito come il sistema di produzione industriale del cibo mondiale sia controllato da pochissimi grandi attori

Da dove viene il cibo che mangiamo? Che processi di trasformazione subisce? Come e dove viene lavorato? Interrogativi che più o meno ogni consumatore si domanda quando va a fare la spesa o quando si accomoda ad un tavolo di un ristorante. Stefano Liberti, giornalista e scrittore d’inchiesta lo ha scoperto dopo un peregrinaggio per quattro continenti e lo ha spiegato in un libro – I signori del cibo – Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta pubblicato nel 2016 da Minimum fax.

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“Non conosciamo l’origine del cibo che arriva nei nostri supermercati, compriamo dei prodotti di cui non sappiamo nulla e la nostra scelta è dettata dall’unica variabile evidente e cioè il prezzo”, spiega Stefano Liberti. Foto: iStock

Che cosa arriva nei nostri supermercati e che cosa mangiamo?

Quello che arriva nei nostri supermercati non sappiamo molto bene da dove provenga. Abbiamo pochissime informazioni sulle origine delle materie prime, sui processi industriali che queste materie prime hanno subito, dove come e quando proprio perché non è obbligatorio indicarle. Compriamo dei prodotti di cui non sappiamo nulla e la nostra scelta è dettata dall’unica variabile evidente e cioè il prezzo.

Cioè?

E’ il prezzo che guida le scelte dei cittadini consumatori che non è necessariamente quello più basso. Qualche anno fa si è fatto un esperimento molto interessante: si è preso un prodotto, lo si è messo in tre packaging diversi tra loro (uno povero, uno medio e uno di lusso). La scelta dei consumatori nell’80% dei casi è ricaduta sulla confezione di mezzo. Questo significa che il consumatore non si vuole sentire così povero da comprare il primo prezzo né è abbastanza ricco per comprare il prodotto di lusso. Ma in realtà in quelle scatole c’era lo stesso prodotto proprio perché tutte quelle informazioni che dovrebbero essere fornite ai consumatori non sono obbligatoriamente indicate in etichetta.

Quindi è un problema di etichetta?

Direi di indicazione di alcuni elementi in etichetta o in forme simili anche digitali. Oggi fotografando il codice a barre è possibile ottenere una serie di informazioni su come è stato prodotto l’articolo alimentare, su quanta C02 è stata utilizzata, quanta acqua è stata consumata, che impegno è costato ai lavoratori. Ci sono già alcuni industriali che cominciano a farlo perché hanno capito che il mercato sta andando verso quella direzione e che c’è sempre una maggiore attenzione da parte dei cittadini consumatori su queste tematiche. Però l’industria alimentare è ancora abbastanza indietro. L’etichetta come è oggi è il risultato di un negoziato tra una industria alimentare che non vuole arretrare troppo e un legislatore che cerca di ridurre l’opacità con metodi burocratici.

E non è nemmeno facile da leggere..

Oggi per comprendere un’etichetta bisogna avere una laurea in chimica per decifrare tutta una serie di ingredienti di cui non si conosce la composizione la sigla, etc. Io credo che bisognerebbe fare un’etichetta diversa nella quale vengono indicati in maniera intellegibile tutta una serie di elementi che potrebbero condurre il cittadino-consumatore verso una scelta più consapevole che non deve essere necessariamente una scelta più etica: ognuno poi si muove secondo la propria morale e le proprie predisposizioni però io posso decidere di comprare una salsa di pomodoro con materia prima proveniente dalla Cina a 20 centesimi di euro oppure pagare 30 o 40 centesimi in più premiando un’azienda agricola che produce localmente in Italia, che consuma poca acqua, poca C02, che usa un particolare tipo di semi e non si serve di lavoratori in nero.

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Stefano Liberti, giornalista e scrittore d’inchiesta ha scritto il libro “I signori del cibo – Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta” pubblicato nel 2016 da Minimum fax. Foto:

Lei ha scritto un interessantissimo libro sui signori del cibo: chi sono?

Io ho seguito la filiera alimentare di quattro prodotti – la carne di maiale, la soya, il pomodoro concentrato e il tonno – che sono un po’ dei prodotti emblematici per capire come funziona la filiera alimentare intesa come produzione, commercializzazione e distribuzione dei prodotti. Seguendo queste filiere in giro per il mondo ho visto come il sistema di produzione industriale del cibo sia controllato da pochissimi grandi attori che spesso lo fanno in maniera verticale e integrata controllando tutto dal campo fino allo scaffale del supermercato. Essi impongono i modi di produzione, standard sempre più al ribasso, economie di scala che schiacciano da una parte i produttori agricoli costretti a seguire quel protocollo di produzione imposto dalle grandi aziende e dall’altra i consumatori che non hanno più varietà di scelta perché queste grandi aziende controllano ormai tutto il mercato. Questo però non si sa.

Diciamo che noi sappiamo quello che vogliono farci sapere..

Esatto. Nella produzione spesso ci si ferma all’ultimo anello della catena e cioè al produttore agricolo come se fosse un mostro che sfrutta i lavoratori. Quello in realtà è il risultato di una filiera tutta distorta che comincia molto più a monte cioè nella grande distribuzione organizzata. Nel momento in cui tu vendi una passata di pomodoro a 39 centesimi sottocosto sei costretto a imporre agli industriali che trasformano il pomodoro dei prezzi bassissimi (circa 20 centesimi al chilo) e loro poi si rifanno sui produttori agricoli (a cui pagano il pomodoro 8 centesimi al chilo). I produttori agricoli tagliano l’unico costo di produzione che è il lavoro quindi sfruttano i lavoratori che raccolgono il pomodoro. Il caporalato va inteso come risultato di una filiera che funziona male in tutti gli anelli. Se il consumatore si rifiutasse di pagare 39 centesimi per una lattina di passata di pomodoro e ne spendesse 30 in più, tutti questi fenomeni disfunzionali diminuirebbero sensibilmente perché sarebbe più facile riversare le porzioni di reddito sugli industriali, sugli agricoltori e poi anche sul lavoratore dei campi.

Tornando alle etichette cosa si dovrebbe fare per fornire informazioni ai consumatori?

Dovrebbe essere obbligatorio indicare l’origine delle materie prime in etichetta in modo molto trasparente. Bisogna dire che il nostro Ministero dell’agricoltura sta cominciando a farlo per tutta una serie di filiere (lattiero-casearia) e lo ha proposto anche per il grano duro da pasta e per i prodotti derivati dal pomodoro. Il problema è che per fare una cosa del genere il governo italiano deve fare un decreto e andare a Bruxelles alla Commissione europea a chiedere il permesso per andare in deroga. Questi decreti però funzionano solo sul territorio italiano.

Quindi cosa avviene?

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L’Italia importa pomodoro doppio o triplo concentrato dalla Cina e poi lo lavora a Salerno per poi riesportarlo all’estero come cibo prodotto in Italia, Image by iStock

Succede che i produttori italiani prendono il pomodoro fresco e fanno passata per il mercato nazionale mentre per il mercato estero possono comportarsi in tutt’altro modo perché non c’è nessuna obbligatorietà di indicazione nell’etichetta. Noi importiamo centinaia di tonnellate di pomodoro concentrato, anche triplo concentrato, dalla Cina che attraversano un paio di oceani, arrivano a Salerno dove il pomodoro viene ritrasformato in doppio concentrato aggiungendo acqua e sale sostanzialmente e poi riesportato in diversi paesi del mondo. Non è una truffa ma sarebbe etico scrivere “prodotto italiano fatto con materia prima proveniente dalla Cina” in modo che il consumatore possa decidere se acquistarlo lo stesso.

Che armi abbiamo noi consumatori?

Spesso si dice che il consumatore non ha nessun potere perché suddito della grande distribuzione alimentare. Ciò è in parte vero ma io vedo una forte crescita di consapevolezza e una forte crescita numerica di consumatori critici che vogliono un altro tipo di cibo e che vogliono avere maggiori informazioni. Io credo fortissimamente nel potere dei consumatori. Prendiamo la campagna contro l’olio di palma che ha bucato lo schermo e ha trasformato l’Italia nel primo paese al mondo Palm oil free. Senza entrare nel merito delle ragioni della campagna, il risultato è che il singolo consumatore andando al supermercato non ha comprato più il prodotto, i grandi gruppi della distribuzione hanno detto agli industriali “Se nei prodotti ci metti l’olio di palma io non te lo metto sullo scaffale”. A questo punto è avvenuta una trasformazione gigantesca nella produzione industriale determinata a monte dal desiderio dei consumatori di non volere più l’olio di palma nei prodotti. Questo esempio, per quanto nevrotico possa essere, dimostra che un cittadino informato può avere il potere di modificare i meccanismi di produzione e commercializzazione. L’importante è l’informazione e la consapevolezza perché a quel punto qualcosa può succedere.

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