Wise Society : Virus, media e potere: le relazioni pericolose
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Virus, media e potere: le relazioni pericolose

di Vincenzo Petraglia
4 Novembre 2020

Mai come in questo periodo di profondo caos e sovrainformazione a causa dell’emergenza Covid-19 è necessario trovare una nuova etica della comunicazione. Per non essere travolti da fake news, paura, rabbia e frustrazione, che cominciano a manifestarsi in maniera violenta anche nelle piazze. Una via d'uscita ci sarebbe, per farci tutti meno male possibile. Ne parliamo con lo scrittore e filosofo della comunicazione Carmine Castoro

Mai come in questo periodo di profondo caos e sovrainformazione a causa dell’emergenza Covid-19, che ci ha trovati del tutto impreparati e ha sconvolto non solo le nostre vite quotidiane e le nostre relazioni, ma anche il nostro modo di comunicare ed informarci, diventa prioritario trovare una nuova etica della comunicazione. Dall’informazione e dalla comunicazione, a seconda di quanto veritiere o distorte siano, possono dipendere anche grandi disastri, e la storia ce l’ha ampiamente dimostrato. Ecco allora che una comunicazione etica, più puntuale e trasparente possibile, capace di contrastare fake news, paura e rabbia (le violente proteste di piazza degli ultimi giorni sono lì a testimoniarlo), può giocare un ruolo determinante nella gestione generale dell’emergenza, compreso quella socio-sanitaria, che ovviamente ha la priorità su tutto.

Certo non aiutano la tv spazzatura e la narrazione spettacolarizzata del dolore, che trova costantemente posto nei media più disparati, come pure i tanti scienziati ed esperti medici (o pseudo tali) cui viene dato eccessivo spazio che esprimono a raffica i loro pareri (e con essi seminano ansia e terrore), talvolta anche senza essere minimamente titolati a farlo.

Con Carmine Castoro, filosofo della comunicazione, scrittore, autore di svariati libri dedicati a questi temi, ultimo in ordine di tempo, Covideocracy, interessante spaccato ed acuta analisi della psicosi sociale generata dai media, affrontiamo la spinosa questione della comunicazione al tempo del Coronavirus, centrale non soltanto nella fase storica che stiamo vivendo, ma nevralgica anche per il futuro e per il tipo di società che vogliamo costruire.

tv

Foto: Pinho / Unsplash

Ha appena pubblicato il libro Covideocracy. Perché questo titolo e di cosa parla?

È la videocrazia all’epoca del Covid. Quella che, anzi, ingloba, elabora e ci reinvia una sorta di Covid-chimera frutto delle sue contingenze biologiche e sanitarie, ma anche delle misperception che gli continuano, giorno per giorno, ad essere costruite intorno.

Un virus metà chimico e metà fosforescente. Non a caso in copertina c’è come immagine un clown (l’elemento neutro e impersonale del Sistema che si auto-riproduce) che maneggia nelle vesti di un giocoliere tre palline: quella morfologica dell’agente patogeno che tutti abbiamo imparato a conoscere, il globo terracqueo sul quale viviamo fatto di stati e mari, e il pianeta nella sua versione cablata e intessuta di telecomunicazioni. Oggi come Covid dobbiamo definire questo mix letale, questa pianta carnivora che ha vari petali nella sua corolla.

In tv e sui media, mai come in questo periodo di emergenza, si sente tutto e il contrario di tutto e spessissimo viene chiamato a dire la sua sul virus anche chi non è titolato a farlo, con l’inevitabile conseguenza di seminare disinformazione e paure talvolta ingiustificate.

Certo, non sono state indagate le cause antropiche del virus visto con troppa linearità come “flagello”, le responsabilità a livello di malasanità territoriale, la finanziarizzazione della medicina; nemmeno evidenziati i conflitti di interessi dei guru della scienza, i raffronti con altre malattie in Italia e nel mondo, quest’anno e nei precedenti, lo smantellamento del welfare, le logiche profittevoli di un infotainment che fa spettacolo pure su pazienti attaccati a ecografi, sacche, ventilatori e vecchietti agonizzanti. È questa metodologia che è mancata e che ha dato la stura a un costante burnout, a un surriscaldamento delle nostre tensioni e attese, perché disabituati alla morte, al fine-vita, alla caducità della condizione umana di cui non c’è traccia nello showbitz che fa da mangiatoia delle nostre menti. Abbattere ogni argine del logos e sprofondare solo nel tetro concime dell’incolumità messa a rischio ad ogni passo è sinonimo di Declino, con la d maiuscola, di una democrazia del terzo millennio che deve confrontarsi anche e soprattutto con i linguaggi di massa.

Virus, media e potere in che rapporto stanno?

Strettissimo. Inestricabile. Si è formato nell’informazione mainstream un vero e proprio Golem tabellare, un cluster disforico immobilista e paludoso basato su un compostaggio di notizie sul virus uguali e debilitanti nella loro reduplicazione ad infinitum.

carmine castoro

Filosofo della comunicazione, Carmine Castoro è autore di diversi libri dedicato al potere dei media.

Il mio libro vuole dimostrare che non esistono oggetti sociologici puri. Che, cioè, siano fotografabili e indagabili nella loro nuda positività, che siano “ovvi”, coglibili e pronti ad una rappresentazione sempre galileianamente riproducibile, e non piuttosto testuali e testimoniati, intramati cioè in rapporti di forza, fascinazioni mediatiche, diaframmi politici, condizionamenti di diverso calibro da parte di soggetti pubblici e privati. Sarebbe stato diverso o uguale il virus se avessimo preso la prima tranche del MES, miliardi e miliardi finalizzati al potenziamento di luoghi e apparecchiature sanitarie; se avessimo implementato i reparti salva-vita; se avessimo reso reticolare ed efficiente la medicina territoriale e domiciliare; se avessimo creato ovunque cure e laboratori mobili sul modello Piacenza; infine, se avessimo imitato le cose buone di Wuhan, in primis la creazione in tempo reale di ospedali-cattedrale per pazienti Covid e una tamponatura di massa con milioni e milioni di test?

La paura, la storia ce lo insegna, può essere utilizzata per accrescere il controllo sociale e restringere le libertà. Pensa che sia uno dei rischi di questi nostri giorni, in Italia, ma anche nel mondo?

Agamben, il filosofo contestatissimo in questi mesi per la sua nota teoria dello “stato di eccezione” le chiama “cospirazioni oggettive”: nessun despota, ma derive di utilità che precipitano a valle occhi, menti e cuori. Il sociale si dissolve anche così: in diretta streaming, non serve immaginare una ridicola inverosimile Spectre come fanno i negazionisti, composta di persone, magari incappucciate, che si siedono intorno a un tavolo e decidono insieme le sorti dell’umanità. Oggi, col Covid per l’appunto, assistiamo a una scritturazione perenne del cittadino-alfa, già ottuso e inebetito dalla tv trash e dalla neurochimica dei like, e ora da un nuovo reticolo obbligazionario e ispettivo, formalistico e anti-pietistico, fondato su condotte parcellizzate, dettagliate, micronizzate, bollinate, iper-semantizzate nella loro evenienza, che evaporano in un surrogato di convivialità e che vengono spacciate per Bene comune mondiale. Qualcosa non torna. A qualcuno sicuramente conviene.

Chi si avvantaggia di più di questo stato di cose?

C’è sempre chi si avvantaggia dalla disperazione e prostrazione altrui. Anche se non persegue consapevolmente questo scopo. I giornalisti della sua Peste, ci dice Camus, avevano riferito che i medici si difendevano con tessuti cerati durante le grandi ondate virali duecento anni prima nel sud della Francia.

LIBRO COVIDEOCRACY

Il libro, pubblicato per Male Edizioni, è un’acuta analisi della psicosi sociale generata dai media sul Coronavirus.

Ed ecco, ci dice il filosofo francese, che “i negozi ne avevano approfittato per smaltire stock di abiti fuori moda grazie ai quali tutti speravano di rendersi immuni”.

Così come i tipografi dell’epoca avevano ripreso a stampare a spron battuto immaginette sacre e testi di profeti e santi perché la gente si affidava al cielo per superare la pandemia.

Anche noi abbiamo avuto surplus di profitti in campo televisivo, farmacologico, nell’e-commerce, fra i brand dell’alimentazione, nel delivery, nella sanità privata, nella produzione di detergenti e in tanti settori “nevralgici”. Ma il vero vantaggio politico è sempre nella facilità di trasformare, foucaultianamente, la vita umana e il pensiero in risorsa gestibile e accumulabile. E questo con l’emergenza-Covid c’è a tutti gli effetti. La “nuda vita” può essere riempita in qualsiasi modo.

Chi e cosa, invece, viene più penalizzato?

La collettività nella sua generalità, fatta di esigenze singole che restano troppo spesso silenziate o marginalizzate (vedi la guerra fra poveri di categorie indennizzate dai “ristori” e altre no), e di parametri istituzionali che credevamo acquisiti nei secoli e che si stanno lentamente erodendo. La Biosicurezza è ormai Biopolitica diffusa e centralizzata di uno Stato che intende, all’improvviso, spazzare qualsiasi nocività ambientale e combattere infezioni e mortalità con la spada, le multe, l’isolazionismo e le manie persecutorie del singolo inerme; diventa una Tanatopolitica, una governance ben orchestrata dello spavento, del pericolo imminente e dell’ibernazione collettiva per paura della morte.

Il modo in cui il Governo sta gestendo la comunicazione secondo lei rischia di produrre effetti incontrollabili nella popolazione?

Certo che sì, una deriva già in atto. Il confusionarismo dei medici-star, l’incapacità gestionale dei leader, il collasso della parola pubblica, la paranoia che diventa merce nelle fauci di una casta di giornalisti senza scrupoli, mentitori e insabbiatori professionisti, sono l’indegno corollario di un problema sanitario diventato monstre, senza riparo, a tempo indeterminato: un catino bollente dentro cui il cittadino medio sta cadendo irreparabilmente. Un Security State, igienista e ultrarazionalista, ci condanna a una nebbiosa fragilità e a un’adesione fideistica a certi diktat a suon di dpcm, che sanno di nazismo-soft, inutile negarlo, col bypass costante di quel patrimonio classico del vivere democratico fatto di parlamentarismo e confronto strategico-consensuale fra tutte le parti sociali.

Una situazione che sta generando rabbia e frustrazione, sfruttata anche da qualche frangia violenta…

Gli atti violenti sono sempre da stigmatizzare e non proteggere, ma è anche indecente attribuirli tutti indistintamente nella loro carica simbolica a movimenti e frange che vivono di questo, dimenticando che se dell’infelicità sociale non si danno canali di soddisfazione democratica ed egualitaria, questa da qualche parte fuoriesce provocando terremoti sociali di inusitata imprevedibilità.

proteste di piazza

Foto: Warren Wong / Unsplash

Infodemia e fake news come si combattono?

Tema ormai cruciale, inaggirabile. Se il mondo non fosse formattato quasi esclusivamente ormai sull’impresa globale, su redditività e competitività spinte, avremmo tempo di riflettere e disgiungere questioni di moneta e immagine, e desiderio di sopravvivenza. E allora, se non cercassimo scoop a tutti i costi per raccattare copie di giornali e fette di pubblico, capiremmo che il problema non è, per esempio, la letalità di un virus ma l’assurdità di programmazioni che negli ultimi decenni hanno investito su smantellamenti di diritti sociali e concessioni munifiche ai privati. Se non avessimo tradotto la comunicazione in merce le attribuiremmo ancora la sua missione fondamentale, cioè “chiarire e arricchire il dibattito democratico”, per dirla alla Ramonet. Ecco, appunto: chiarire. Fare chiarezza. Trovare certezze autentiche, sfrondare il campo da ombre, reattività, teorie raffazzonate, psicologia delle folle frenetica e dissoluta. E ricuciremmo la famosa intermediazione, la sospensione dei giudizi, il ruolo dell’intellettuale che resta indispensabile, nell’attendibilità delle ricerche, nella verifica dei fatti, nella proposta di una visione del mondo che abbia forti radici relazionali e democratiche.

Lei ha scritto un libro intitolato Maria De Filippi ti odio. Per un’ecologia dell’immaginario televisivo. Ci spieghi meglio cosa intende per “ecologia dell’immaginario”…

Le rispondo con una bellissima citazione del filosofo Felix Guattari quando dice: “L’ecologia sociale dovrà adoperarsi alla ricostruzione dei rapporti umani a tutti i livelli del sociale. Non dovrà perdere mai di vista che il potere capitalistico si è delocalizzato, deterritorializzato, sia in estensione, ampliando la sua insistenza sull’insieme della vita sociale, economica e culturale del pianeta, sia in “intensione”, infiltrandosi dietro gli strati soggettivi più inconsci. Pertanto non è più possibile pretendere di opporvisi soltanto dall’esterno, attraverso le pratiche sindacali e politiche tradizionali. È divenuto altrettanto imperativo affrontarne gli effetti sul piano dell’ecologia mentale all’interno della vita quotidiana individuale, domestica, coniugale, di vicinato, di creazione e di etica personale”. Ecco, dobbiamo cominciare a considerare i nostri occhi, le nostre sinapsi, le nostre inclinazioni più profonde come una “oasi ecologica” al pari degli habitat naturali che non vogliamo vedere insozzare da pattumiera, discariche o inquinamento elettromagnetico.

Il sangue e lo schermo. Lo spettacolo dei delitti e del terrore. Da Barbara D’Urso all’Isis è il titolo di un altro suo lavoro. La spettacolarizzazione del terrore e della sofferenza che influssi ha sulla nostra mente e sul nostro modo di agire?

Come dicevo in quel libro, il male mediatizzato è un riduttore di complessità, un generatore di sospetti, un aggregatore di effetti e un doppiatore di temporalità. Nel senso che sospende il giudizio sulla emendabilità dei processi sociali, e ordina la nostra esperienza verbale e visiva intorno a elementi “altri” – spettacolari, emozionali, occasionali, biografici, ambientali – che ne aggirano la fattualità causativa. Quest’ultima, allora, viene doppiata, come si direbbe di una moto o di un’auto da corsa in gara surclassata da un avversario, e come si direbbe di un attore che presta, sostituendola, la sua voce a quella del collega madrelingua. Il male aneddotizzato e anestetizzato è una super-ottica che ingrana l’ortopedia sociale su un’allucinazione culturale. In pratica, oggi, tutto fa brodo, anche orchi e spauracchi. Con la felicità e il business di personaggi contro cui da anni mi scaglio come la De Filippi e la D’Urso, per la pericolosità dei loro programmi che usano dolore e sangue non come ferite sociali da analizzare ma come scene compassionevoli e thriller pomeridiani che inchiodano gli spettatori e soddisfano l’avidità degli sponsor.

Oggi, anche in tempi di Coronavirus, l’infotainment punta spesso sulla spettacolarizzazione della sofferenza. Con quali risultati?

Col risultato di creare una vera e propria “cirrosi estetica”. Così ci siamo ritrovati a galleggiare giornalmente nella Tele-Bolla-Covid, impiccati da marzo alla video-Waterloo delle 18 dei Guardiani della Protezione Civile, con la loro gotica conta di morti, ricoverati, guariti e contagiati real time, più visti di un gorgheggio di Bocelli alla Scala, prassi da poco ripresa dai tg. E ad assistere quotidianamente alle funestissime vicissitudini di nonnini morti, asfissiati, smagriti e soli, nel letto di un ospizio; ai tanti intubati e “pronati” che tutti i network televisivi, ma proprio tutti, in barba a qualsiasi deontologia professionale e etica di servizio pubblico, hanno messo a favore di microfono e telecamera con riprese solo ipocritamente mezze pixelate, compresi scorci di arrivi di ambulanze o di nosocomi sovraffollati serviti da operatori in tute spaziali come nel fallout di un reattore nucleare, e preti che amministrano l’estrema unzione al capezzale di brande dolentissime, con gli stessi medici commossi e prostrati. E tutto questo spacciandolo per “giornalismo di inchiesta”. Una mola di fattoidi, direbbe l’indimenticato Gillo Dorfles, conditi da piagnucolosi commenti e zero raziocinio, un Moloch che ci ha mangiato i cervelli, addomesticati al peggio, inibiti nelle nostre facoltà elementari, catturati solo da un moto disperante e annichilente.

La tv spazzatura, che dagli anni ’80 ha cominciato a farsi strada nel nostro Paese, che riflessi ha avuto in tutto questo lasso di tempo sull’italiano medio? Come siamo cambiati, come italiani, anche alla luce di questo, negli ultimi decenni?

Il discorso sarebbe lungo. La cosiddetta televisione “commerciale” ha introdotto elementi di creatività, movimentazione, concorrenza dentro un mondo di ortodossia partitocratica che aveva caratterizzato il monopolio della Rai. Tutto in primis se ne è giovato: il giornalismo, il talking pubblico, la nascita di nuove formazioni politiche, perfino gli stilemi della comicità. Ma a poco a poco ha sgretolato un certo ethos che c’era nella storica programmazione dei canali di Stato, ancora arroccati – e legittimamente – su valenze culturali, educative, formative, insufflando l’elemento aggressivo e pestifero del mercato e delle sponsorizzazioni. Ha inventato la vera Industria dell’Immagine, la Borsa della Tv: da quel momento, i grossi capitali hanno deciso lo spartiacque del mediatically correct e le novità rutilanti e banalizzanti, acchiappa-popolo, hanno fatto economicamente da traino finendo per definire una stessa nuova idea di “popolo”. Incolto, presentista, ridanciano, consumista, ruffiano, arrogante, narcisista, servo volontario. Disvalori ai limiti del nauseabondo che dopo un trentennio di Berlusconismo e Defilippismo hanno ricostruito dalle fondamenta il nostro “essere italiani” oggi, portandoci, senza grosse soluzioni di continuità, alle soglie dell’inferno-social contemporaneo.

il potere dei social media

Foto: Daria Nepriakhina / Unsplash

Un altro aspetto importante da non sottovalutare è quello della tivù che fomenta l’odio. Per non parlare dei social media, ovviamente, col fenomeno degli haters e quant’altro. Come si può combattere in modo efficace questo approccio, che indubbiamente ha molte ripercussioni anche sui più giovani?

Le moderne tecnologie dell’informazione, dello spettacolo e dell’organizzazione del consenso, connesse fra di loro e subdole nei riguardi di certe dinamiche antropologiche che fanno parte dell’evoluzione del nostro cervello e delle modalità con cui percepiamo il mondo esterno sin dai primi anni della crescita, non fanno altro che fissare in noi delle formule semplificative e riduzioniste della complessità dell’esistente, quella che Lussato definiva maquette, ovvero una comoda mappa suppletiva, spesso rassicurante (che, guarda caso richiama il passo felpato su una moquette) che ci induce a preferire la finzione al turbamento della verità cruda e senza bendaggi. Ma la finzione della techne e dello spettacolo è un paesaggio mentale surrogato, scintillante, omologante, livellato sui dettami della concorrenza, del consumismo, dell’industrialismo e dell’intrattenimento: una bolla dietro la quale ancora ci sono sguardi, fragilità, difficoltà comunicative, sofferenze, imperfezioni, paure reali di cui nessuno si fa carico. E che sono sintomo e terapia del malessere generalizzato che ci pervade. Dovremmo riscoprire appieno, a tutte le età, la sinistra bellezza della condizione umana.

La scuola e le università, insieme con le altre, diciamo così, agenzie di socializzazione, fanno abbastanza o latitano su questo fronte?

Fanno molto poco. C’è un difficile adattamento della classe docente nei licei e nelle università ai cambiamenti strutturali avvenuti nel linguaggio, nelle idee e nelle abitudini di vita occorsi negli ultimi anni al pubblico dei giovani. Spesso ci si attacca spasmodicamente a programmi ministeriali vetusti e a corsi tematici completamente distaccati dalle problematiche che si vivono in una società telematica e disincarnata. Da qui bisognerebbe ripartire per affrontare in chiave “popsofica”, come si dice, gli snodi più delicati delle psicologie di oggi, adulte e in erba, e trovare livelli di riflessione e critica al passo coi tempi. Col Covid, per esempio, mi sarei aspettato che le università, avendone l’opportunità sancita dai dpcm ultimi, rimanessero aperte come santuario del pensiero e fulcro dell’agorà, mantenendo opportunità di incontro e discussione de visu, e invece no: siccome tutto dipende da carriere, rischi personali e governance ben precise hanno scelto di chiudere i battenti ricorrendo ai metodi un po’ codardi e scontati applicati ovunque.

Una tv, e in generale una comunicazione che passa anche attraverso altri media, social compresi, più saggia, wise appunto, di cosa avrebbe bisogno?

Una metamorfosi pericolosissima è in corso, passati negli ultimi dieci anni circa dalla notiziabilità di un fatto alla sua capacità di emozionabilità del fruitore che, in base alle superconduttività di dati, è trasformato in pila da caricare, terminale da far squillare, in una macchina che incamera dati, quando non li offre egli stesso sotto forma di involontaria profilazione, e che acquista servizi. L’elemento filantropico, conoscitivo e trasformativo nei linguaggi di massa decede, ed è qui che alligna il vero potere oggi. Quella mediazione operata prima dagli storici soggetti critici ed educativi legati alla verità e alla attendibilità dei saperi, oggi è praticata da meccanismi automatici dell’attenzione e del profitto, praticati dai media mainstream, web e social in testa a tutti. Con un’accortezza a ciò che si dice e a come si dice, finanche dal punto di vista della grammatica italiana, talvolta, bassissima. Recuperare la gentilezza, la mitezza, la socievolezza conversativa, oltre che la nobiltà di un vero Servizio Pubblico e lo spirito critico e vigile verso gli inganni delle leadership, è la vera sfida per abbattere l’”indifferenza alla qualità dei contenuti”, per dirla alla Colombo, e recuperare quel rispetto del vicino dialogante, che è l’anima di ogni atto che si dica “veridico”, non solo verosimile.

Vincenzo Petraglia

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Carmine Castoro

Scrittore e filosofo della comunicazione
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