Alfonso Fuggetta, professore di informatica al Politecnico di Milano, spiega l'importanza dei big-data nella salute. "Ma prima l'Italia colmi il gap tecnologico tra Nord e Sud"
«Innovare vuol dire avere un impatto concreto e benefico sulla vita della società». Le parole di Alfonso Fuggetta, professore di informatica al Politecnico di Milano, dove dirige il centro per l’innovazione e la ricerca digitale Cefriel, danno l’idea di come coi big-data si punti a rivoluzionare la vita dell’uomo, nei fatti e non soltanto attraverso affascinanti proiezioni. Diverse le domande a cui uno dei massimi esperti di innovazione digitale in Italia ha risposto nel corso del suo intervento a «The Future of Science», la conferenza mondiale sul futuro della scienza organizzata a Venezia dalle Fondazione Umberto Veronesi, Fondazione Giorgio Cini e Fondazione Silvio Tronchetti Provera. Del resto i numeri di dati che produciamo ogni giorno sono impressionant: 2,5 miliardi di miliardi che nel 2020 diventeranno 40 mila miliardi di miliardi (fonte: ENISA).
Che cosa sono i big-data e come rivoluzioneranno le nostre vite?
«L’inglesismo ci permette di descrivere una raccolta di dati talmente estesa da non poter essere analizzata dall’uomo senza ricorrere a sistemi di calcolo specifici. Si tratta di informazioni che soddisfano il cosiddetto criterio delle 5 V: devono essere veritiere, varie, variabili, veloci e voluminose. In una società sempre più digitalizzata e connessa, ogni due giorni il mondo produce una quantità di informazioni pari a quella generata dall’inizio della civilizzazione a oggi. Non si può più pretendere di distinguere la vita reale da quella digitale: sono fuse per natura, ormai. Orientarsi e interpretare l’immensa mole di dati è più che mai fondamentale».
Quali sono i possibili campi di applicazione nell’analisi dei Big Data?
«Nel settore del marketing e della pubblicità sono già molto utilizzati, per esempio. Ogni spot, soprattutto online, è profilato sulla base di alcune caratteristiche specifiche dell’utente: che lavoro fa, cosa preferisce fare nel tempo libero, quali sono state le sue ultime ricerche. Ma ci sono spiragli molto interessanti anche per quel che riguarda la salute, attraverso l’applicazione dei dati provenienti dalla genomica alle diverse branche mediche».
Quanto velocemente continua a progredire la tecnologia?
«Molto, perché diversamente non saremmo mai stati in grado di generare una tale mole di informazioni né di interpretarla. Oggi produciamo dati ogni secondo, molti dei quali possono tornarci utili soltanto se correttamente decodificati. Riusciamo a fare tutto grazie allo sviluppo di nuovi software, che è in costante ascesa».
Cosa manca all’Italia per fare in modo che l’utilizzo dei big-data possa essere sempre più al servizio dell’uomo?
«Più infrastrutture, innanzitutto: non possiamo parlare di big-data se in alcune zone del Paese manca ancora la banda larga. E poi la capacità di estrarre dati da sensori che oggi risultano già operativi, ma da cui non si estraggono tutte le informazioni che potrebbero invece tornare utili. Abbiamo già tante informazioni, eppure non sappiamo ancora in grado di interpretarla come dovremmo. Oltre agli aspetti tecnici, poi, c’è da vincere una partita culturale. Essere dei nativi digitali non vuol dire sapere sempre usare lo strumento che si possiede nel più funzionale dei modi. Se vogliamo vivere in un mondo migliore, dobbiamo imparare a far crescere dei nuovi cittadini digitali».
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