Intervista a Nelson Marmiroli, uno dei massimi esperti mondiali del mondo vegetale, di cui ci svela non pochi segreti
Il mondo vegetale racchiude ancora molti misteri e negli ultimi anni svariati studi si stanno concentrando proprio sulle piante, per capire come si comportano e cosa possiamo imparare come essere umani da questi loro comportamenti. Per esempio progettando robot che imitano i meccanismi con cui le radici degli alberi si espandono nel terreno, o ancora capendo come percepiscono gli stimoli esterni e come ad essi reagiscono: luce, buio, vento, rumori e così via. Le applicazioni potrebbero essere davvero tante, mentre sono già noti gli effetti che le piante hanno sul benessere psicofisico degli esseri umani e come possono contrastare in modo molto efficace l’inquinamento, sia esso esterno che interno alle abitazioni o ai luoghi al chiuso che abitualmente frequentiamo.
Di ciò e di molto altro parliamo in questa intervista con Nelson Marmiroli, professore emerito di Biotecnologie ambientali all’Università di Parma, direttore del Consorzio Interuniversitario Scienze Ambientali (Cinsa) e co-fondatore, oltre che presidente della startup innovativa Ri.Circola. Fra i massimi esperti mondiali di fitotecnologie, cioè dell’uso delle piante e dei diversi processi biologici per ottenere benefici per l’uomo e l’ambiente, ci accompagna in un affascinante viaggio nel mondo dei vegetali e dei loro tanti segreti.
Professor Marmiroli, le piante sono intelligenti?
Cos’è l’intelligenza? Se è la capacità di recepire segnali dall’ambiente, integrarli e rispondere, allora le piante sono intelligenti, così come può esserlo un qualunque organismo. Ci sono meccanismi molecolari che consentono alle piante di “contare” – ad esempio una foglia di una pianta carnivora che si chiude sull’insetto solo dopo che i suoi peli sono stati sfiorati almeno tre volte – ma questi sono meccanismi automatici. Sono intelligenti a modo loro – comunicano – modificano il loro comportamento – apprendono, se questo significa modificare il comportamento dopo il verificarsi di certi eventi. Ma mi fermo qui.
È vero che le piante vengono influenzate nella loro crescita anche da elementi quali la musica e l’inquinamento acustico?
Gli organismi viventi attuali sono il risultato di quasi quattro miliardi di anni di evoluzione della vita sulla terra. Sarebbe assurdo pensare che in questa corsa verso l’occupazione del pianeta e dei suoi ambienti la storia evolutiva non avesse dotato tutti i viventi di sistemi molto sofisticati di percezione delle condizioni ambientali.
Le piante, tra tutti gli organismi viventi, hanno dei sistemi molto sofisticati, in quanto riescono a percepire l’energia contenuta nella radiazione solare (quanti di luce) e a utilizzarla per produrre energia chimica. Ma oltre a questo usano l’alternanza luce/buio per produrre fiori, per formare germogli o far cadere foglie. Usano i colori dei fiori e dei frutti per interagire con gli animali e far sì che i loro piccoli (i semi o il polline) viaggino nello spazio e nel tempo. Le piante infatti non sono fisse, sono sessili ma parti di esse si muovono e molto anche. Inoltre sono dotate di sensori termici molecolari molto complessi, le proteine che sentono e reagiscono agli stress termici e di sensori che sentono stress idrici, presenza di tossine, contaminanti, patogeni, parassiti. Ora è più importante questo o pensare in modo molto antropocentrico che le piante sentano anche gli stimoli che l’uomo vuole o può procurare loro? Il problema è non solo scientifico ma anche culturale che scientifico.
Le piante comunicano fra di loro?
Le piante comunicano tra di loro come con tutti gli altri organismi vegetali e animali del loro habitat. È una cosa che fanno tutti gli organismi viventi. La comunicazione è prevalentemente chimica e molecolare. I segnali e i messaggi vengono formulati sotto forma di segnali chimici, ad esempio una ferita che immette nell’ambiente delle molecole organiche ma anche delle macromolecole complesse come proteine e acidi nucleici. È un mondo dove la chimica e la biochimica più che la cultura e l’etologia la fan da padrone. Ma ci potrebbe essere molto di più, delle cose ancora da scoprire che potrebbero avvicinare di più la comunicazione vegetale a quella animale, compreso il linguaggio e il comportamento dei mammiferi superiori.
In casa è quindi positivo tenerne più di una, in quanto comunicando fra loro, sono più in salute?
Tenere in casa più piante è positivo sopratutto per noi perché più piante offrono servizi ambientali. Poi quello che fanno per noi sulla qualità dell’aria indoor viene anche a loro beneficio. Uno scienziato deve imparare a scindere i propri sentimenti dai fatti su cui si basa il pensiero scientifico. È certamente possibile che esista anche in piccoli ambienti il “mutualismo” associativo che le piante mostrano su dimensioni più vaste. In fondo se “no men is an island” forse anche “no plant is a forest”. È quindi senza dubbio positivo tenerne più di una, senza però esagerare, come faccio io!
Quali sono i benefici psicofisici che le piante possono apportare agli esseri umani?
È senza dubbio un grande beneficio psicofisico quello che tutti gli animali, compreso gli uomini, traggono dalla presenza delle piante. Gli alberi producono frutti, offrono riparo dalle intemperie e dai pericoli, inoltre la loro presenza favorisce la presenza di altri vegetali edibili e di animali che possono essere cacciati. Sicuramente il ricordo ancestrale dell’uomo “scavenger” (razziatore che viveva anche sugli alberi) è ancora presente nella psiche delle persone moderne.
Gli alberi inoltre hanno rappresentato e sono tutt’ora un elemento di continuità intergenerazionale. Frasi come “questa è la quercia che ha piantato mio nonno…” sono comuni nella letteratura come nell’arte e nella vita. Non c’è stato momento nella storia evolutiva dell’uomo, dalla sua oscura preistoria alla – non meno oscura – storia dell’era moderna in cui il tema rapporto uomo-piante non sia stato centrale. Le piante hanno assunto valori diversi ma anche immaginifici, dal De Rerum Natura, ai riti Druidi, alla caccia alle streghe, che chissà perché si radunavano nelle radure dei boschi, ai primi studi sulla fisiologia e riproduzione delle piante.
Da Joseph Bank e il suo Kew Garden, il primo “economical garden” a Linneo e le sue chiavi identificative, tutto è servito per portare sino a noi un rapporto equivocamente passionale. Le piante possono essere abbattute senza gridi o lamenti, senza clamore e a volte senza permessi. Anche se la coscienza attuale si è evoluta e sempre più spesso i “piantisti” si oppongono come gli “animalisti” a questi scempi.
Cosa ci può insegnare il mondo delle piante?
Il mondo delle piante ci può insegnare tanto. Innanzitutto che la vita non è chiasso, clamore, furia, ma una calma, continua, lotta per sopravvivere. Le piante ci insegnano come ricercare questa calma e ci trasmettono serenità. Sotto le piante gli antichi meditavano e cercavano l’ispirazione per trasmettere ai propri simili il senso della vita e della presenza del’umano. Ma sotto le piante si commettevano anche crimini e violenze (e tutt’ora si commettono). Si nascondono corpi smembrati nei cespugli o nella boscaglia perché le piante sono inermi e non possono gridare ai nostri crimini perché semplici spettatrici.
Se La Cavallina storna di Pascoli nitrisce alla madre per confermare il nome dell’assassino del padre, così non possono fare le piante del bosco che hanno visto i corpi di donne e uomini buttati tra le loro radici, come se fossero una discarica di membra umane. Le piante ci insegnano la pietà e la misericordia accogliendo e proteggendo quei corpi nel loro ultimo cammino. Le piante hanno assistito a quella pazzia collettiva che viene chiamata guerra e ne hanno sofferto come noi.
Ma le piante ci insegnano anche quanto può essere aspra e severa la loro ira. Quando la foresta brucia, spinte dal vento le fiamme distruggono case e cose, ed allora l’uomo ha paura delle piante, gli incutono terrore e timore. Le piante sono una parte del mondo che facilmente dimentichiamo perché ci fa comodo dimenticare che senza di esse noi non potremmo esistere.
Lei personalmente cosa ha imparato dalle piante?
Quello che ho imparato dalle piante l’ho capito solo in piccola parte dai miei studi scientifici e in massima parte dalla mia convivenza con esse. Qualcuno ha scritto che c’è più fisica in un quadro di Matisse che in un libro di fotonica. Allo stesso modo si potrebbe dire che c’è tanta botanica, ecologia vegetale, ambientalismo nello sforzo di coltivare una pianta sul proprio balcone. Perché quello che conta è si il nostro cervello, che sappiamo esistere, ma anche il nostro animo, che presupponiamo esista ma non ne siamo sempre coscienti.
Recentemente è uscito un bellissimo libro intitolato La Storia degli alberi di Kevin Hobbs e David West. Una collezioni di disegni magnifici di piante e storie sorprendenti. Alberi vivi dai tempi dei primi faraoni e forse anche prima, che hanno attraversato l’intera storia moderna e sono ancora lì. E non è vero che non parlano, la loro stessa presenza è parola, verbo (come dicono le Sacre Scritture). Ma il verbo è nato per essere compreso, senza questo atto volontario di “transversatilità” la vita come la intendiamo non avrebbe senso.
Le piante mi hanno insegnato tante cose, prima fra tutte che non è la lunghezza ma l’intensità, la pienezza della vita la cosa più importante. Le piante inoltre mi hanno insegnato il rispetto, quasi francescano, verso tutte le forme viventi, mobili o sessili, parlanti o non parlanti. Le piante mi hanno soprattutto fatto sognare un mondo e un tempo in cui i viventi sulla terra torneranno a vivere in pace ed armonia con se stessi e gli uni con gli altri.
Una delle ultime frontiere della ricerca è quella di replicare, per esempio nella robotica, comportamenti che in quale modo emulano quelli delle piante. Per esempio il mondo in cui le radici si espandono…
La ricerca attuale definisce sempre nuovi obiettivi, alcuni dei quali molto ambiziosi. La Synthetic Biology, la Biologia Sintetica, si occupa di questo, riprodurre forme di vita dalle più semplici ma anche quelle più complesse in toto o in parte (tessuti, organi). La “vita artificiale” non necessariamente è in conflitto con la vita naturale (un pasticcio semantico!).
In uno dei più bei racconti di Shakespeare intitolato The Winter’s Tale, ad un certo punto entra in scena il tempo che si presenta e dice: “Io sono il Tempo che tento tutti ma favorisco solo pochi. Per la buona come per la cattiva sorte io costruisco e distruggo i sogni e gli errori delle persone”. Solo il Tempo potrà dirci la reale portata di ciò che iniziamo oggi. Perché? Perché noi non viviamo 5.000 anni come certe piante e possiamo solo vedere il futuro attraverso l’occhio fallace delle nostre supposizioni.
Una cosa è certa: non ha mai giovato a nessuno mettere bavagli alla ricerca scientifica. Per quanti errori siano stati fatti, la ricerca scientifica ha un valore salvifico ineguagliabile. Cosa sarebbe successo se non avessimo prodotto in un anno miliardi di dosi di vaccino anti Sars-CoV-2? Pensate alle epidemie, alle pestilenze e pandemie del passato senza vaccini e cure appropriate. Quelle che ridussero gli abitanti di Londra ad un terzo e che spopolarono Roma. Quindi se si vuole progredire forse è venuto il momento di cambiare paradigma anche nella ricerca. Più metodo olistico, più attenzione alla sostenibilità delle nuove tecnologie, più rispetto della natura e di tutte le forme di vita, comprese le piante.
Le piante sono fra gli organismi più resilienti in natura?
Tutti abbiamo in testa immagini come quella di una pianta che cresce, spacca il cemento del marciapiede e si fa strada nelle nostre città. Si pensa sempre che le piante, per il fatto di non potersi muovere da dove germinano, abbiano nel corso dell’evoluzione sviluppato capacità incredibili di adattarsi alle condizioni ambientali anche avverse. Eppure anche le piante hanno esigenze: luce, acqua, minerali, calore. La pianta di per sé può anche essere resiliente, tuttavia ha strutture delicate che vengono danneggiate, processi fisiologici che si fermano o che non funzionano a dovere. Alcune parti della piante, spore, semi, quelle sono fatte per sopravvivere a molti stress e situazioni difficili, ma solo come strutture di sopravvivenza – la pianta germinerà poi solo se le condizioni lo consentono.
In tema indoor air quality, quali benefici possono dare le piante alla qualità dell’aria? In che modo contribuiscono a rendere l’aria migliore?
La qualità dell’aria indoor, come quella outdoor, è minacciata dalla presenza di contaminanti che provengono dagli stessi immobili, dalla loro manutenzione o dalle attività delle persone che li frequentano, li abitano. Materiali usati per intonaci e pavimenti, rivestimenti, pitture e vernici, materiali per pulizia, materiale elettrico, elettronico e cablature, computer, televisori, telefoni, ma anche vestiti, scarpe e la stessa presenza delle persone e degli animali può contribuire all’inquinamento indoor e alla cosiddetta “sick building syndrome”, la sindrome da edificio malato che colpisce persone che soggiornano a lungo dentro un edificio.
Le piante posseggono dei sistemi per la assunzione, stoccaggio e anche trasformazione di queste sostanze, similmente a quello che accade nel fegato degli animali, e che per questo viene definito “green liver”, fegato verde. In questo fegato verde le sostanze inquinanti subiscono dei cambiamenti, alcune vengono praticamente consumate come la CO2, altre biotrasformate e rese meno pericolose o meno disponibili per gli altri organismi viventi. Inoltre la piante attraverso le radici interagiscono con i microrganismi del suolo (anche entro un piccolo vaso) e attraverso questi possono anche distruggere e mineralizzare sostanze organiche pericolose, trasformandole in CO2 e H2O.
Quali sono le piante più utili a contrastare l’inquinamento indoor?
Le piante più utili per gli ambienti indoor sono innanzitutto quelle che più sollecitano l’attenzione e la cura di chi ci vive, poiché le piante in quelle condizioni hanno bisogno delle nostre cure parentali per restare vive, belle ed efficienti. Tra queste piante ne sono state sperimentate alcune che manifestano particolari capacità: Anthurium, Dracena e tronchetto della felicità, Sansevieria, Potos, Spatifillo. Queste catturano le sostanze organiche come benzene, toluene, formaldeide, ma anche il particolato che deriva dalle combustioni. Inoltre non devono essere collegate ad una presa di corrente come i cosiddetti “purificatori” d’aria.
Per dare un’idea concreta, data una stanza di 25 metri quadrati, quante piante bisognerebbe avere per un reale miglioramento dell’aria?
Occorre partire dai metri cubi di volume d’aria su cui bisogna agire. Occorre poi considerare qual è la normale ventilazione del locale o la presenza ad esempio di ventilazione forzata. Altri parametri da considerare: luce, temperatura, umidità dell’aria, dimensione della pianta (canopy), dimensione del vaso o del recipiente, tutti parametri che influenzano le attività della pianta come fotosintesi, assorbimento radicale, evapotraspirazione.
Nello stesso modo va considerato che molti degli inquinanti dell’aria si depositano sulle foglie interagendo con le cere presenti sulle medesime e quindi un lavaggio periodico delle foglie con biosaponi rimuove questa quota di inquinanti assorbiti.
Considerando il tutto potremmo calcolare come è stato fatto uno scambio gassoso. Ad esempio lo spatifillo, in una camera chiusa e sigillata sottrae 41 milligrammi di benzene o 16 di formaldeide a fronte di una superficie fogliare di 7.500 mm2 circa. Sono sempre calcoli molto difficili, e non si trovano molti articoli scientifici che li propongono. A volte i ricercatori si accontentano di rilevare di quanto è stata purificata l’aria, quanto contaminante è scomparso, ma senza indagare su dove sia finito.
Possiamo mettere piante in tutti gli ambienti o ce ne sono alcuni in cui è sconsigliato?
Ci sono piante che al buio non organicano la CO2 ma la conservano sotto forma di acidi organici (piante C4), altre come le Crassulacee pure non emettono CO2 anche al buio, mentre le piante C3 lo fanno. Tutte le piante poi emettono CO2 quando attivano la fotorespirazione, come in condizioni di stress. Pertanto occorre essere certi che le nostre piante siano nelle giuste condizioni ambientali e di salute innanzitutto. Una cosa che le piante poi fanno, specialmente se l’ambiente è caldo, è aprire i loro stomi ed espellere acqua sotto forma di vapore per raffreddare le foglie, e di questo effetto umidificante va tenuto conto regolando opportunamente la temperatura dei locali in cui sono mantenute.
Le piante vengono utilizzate anche per il risanamento di aree fortemente inquinate a causa, per esempio, dell’industria mineraria…
Recentemente in un’intervista concessa alla BBC ho avuto modo di affrontare proprio questo problema anche in relazione con i danni che le prospezioni minerarie e l’espansione dell’agricoltura stanno causando alla Foresta amazzonica. L’utilizzo di piante per la bonifica ambientale da contaminanti sia organici che inorganici viene comunemente riportato come “fitorimediazione”. Con questo termine si indicano diversi approcci “tecnologici” al problema del risanamento /rimedio ambientale, come fitoestrazione, fitotrasformazione, fitovolatilizzazione, fitostabilizzazione e fitorimediazione mediata dalle radici della pianta. Tutte queste proprietà delle piante sono state infatti trasformate in veri e propri approcci tecnologici utilizzati per la bonifica ambientale.
Per quanto riguarda le attività minerarie queste sono state oggetto di approfonditi studi da parte dello scomparso collega e amico professor Stephen Ebbs della Southern Illinois University Carbondale, che per tanti anni ha rivestito importanti ruoli nella International Phytotechnology society (IPS). Tanti altri membri della stessa società hanno pubblicato e comunicato importanti relazioni ai meeting della IPS su questo stesso argomento.
Qual è il danno, irreparabile, che stiamo causando attraverso la deforestazione? Siamo ancora in tempo per invertire la rotta? A quali condizioni?
Il problema della deforestazione va al di là di un semplice problema ecologico/ambientale. È vero infatti che la cancellazione continua di foreste e santuari ambientali sta causando danni irreversibili al clima con inasprimento delle condizioni meteo in varie aree del pianeta. Ma è altrettanto vero che i problemi non si fermano li. Infatti la perdita di foreste significa perdita di habitat anche di migliaia di specie animali che così si avviano verso il rischio di estinzione.
Inoltre la riduzione degli habitat non antropizzati spinge sempre di più le persone a contatti con specie aliene e con i patogeni che queste specie possono trasportare inconsapevolmente. Un esempio sembra essere quello emerso con la trasmissione del Sars-CoV-2, ed è stato calcolato che da qualche parte ci sono almeno altri 200 tipi diversi di adenovirus che potrebbero diventare rilevanti per la salute umana nei prossimi anni.
Poi non bisogna dimenticare l’apporto in termini di farmaci e sostanze utili che sino ad ora abbiamo ricavato da queste risorse ambientali, un servizio fondamentale per lo sviluppo della medicina. Infine, preme ricordare che il problema della deforestazione è anche una emergenza sociale ed umanitaria. Popolazioni “aborigine” che hanno vissuto per decine di migliaia di anni nel loro ambiente in equilibrio tra questo, i loro bisogni e la loro cultura si trovano sempre più emarginati e spinti fuori dai loro ambienti “naturali” e verso stili di vita e organizzazioni sociali che nulla hanno a che fare con la loro storia.
Invertire la rotta è sempre possibile; ma è una questione di venti e di velature. Attualmente il vento spinge troppo forte nella direzione dello sviluppo economico e le vele della nave sono gonfie di questi venti. La bonaccia causata dalla pandemia anzi richiede che la nave riprenda abbrivio e al più presto. La specie umana ha dimostrato però di saper trovare anche momenti di lucidità e comprensione e ci sono segnali anche questa volta. Gli accordi sul clima per proteggere la foresta pluviale amazzonica e i residui di quella australiana, nonché la tutela dei santuari naturalistici africani, vanno nella direzione giusta mentre altri come il maggior sfruttamento delle risorse fossili e delle risorse naturali più critiche vanno invece nella direzione opposta.
Il problema è che non esiste la percezione che certi fenomeni naturali possano seguire dei cicli irreversibili o reversibili solo nel lungo periodo. Mentre invece si pensa e si ragiona sempre su fenomeni a cicli brevi. Noi non sappiamo se questo climate change sarà a ciclo breve o lungo, mentre da questo potrebbe dipendere il futuro delle prossime generazioni.
Quali sono le ricerche più innovative e interessanti riguardanti il mondo delle piante in corso di svolgimento al Cinsa, di cui lei è direttore?
Cinsa è partner del progetto europeo Interreg Central Europe AWAIR, che studia la qualità dell’aria nelle città europee, quali fattori la peggiorano, e a scapito di quali categorie di persone. Ma soprattutto come è possibile migliorare la qualità dell’aria attenuando gli effetti delle principali fonti di inquinamento, realizzando foreste urbane (urban forests) e diffondendo l’uso di vegetali su tutto il territorio urbano per mitigazioni sia indoor che outdoor. Coordinatrice del progetto è stata la professoressa Annamaria Colacci di Arpae (Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell´Emilia-Romagna).
Cinsa è, inoltre, coordinatore di un progetto di riforestazione interamente finanziato dagli imprenditori Agugiaro e Figna, e in particolare fortemente voluto dalla dottoressa Rosangela Figna, agronomo e grande difensore delle piante. Questo progetto prevede lo studio teorico e l’impianto effettivo di un bosco di parecchi ettari ad essenze autoctone con fini non solo paesaggistici e di riequilibrio ecologico ma anche per ridurre le quote di CO2 emesse in compensazione delle prospicienti attività produttive. Un esempio paradigmatico di carbon trading.
E ancora, siamo come Cinsa coordinatori e partner di tre progetti del Piano di Sviluppo Rurale della Regione Emilia-Romagna (PSR-ER) che studieranno foreste e boschi dell’Appennino Parmense per analizzare modelli di gestione sostenibile del materiale derivato dagli esboschi, producendo biochar da restituire al bosco stesso come ammendante nel suolo.
Fra le altre cose lei è anche presidente della della startup innovativa Ri.Circola. Di che si tratta?
Ri.Circola nasce nel 2020 per volere di Marco Ruggi che è attualmente amministratore delegato e principale azionista della società, che mi ha invitato a ricoprire questo ruolo, proposta che, nonostante i tanti altri impegni, ho accettato con piacere perché essa non nasce semplicemente come l’ennesima società di consulenza e di servizi, ma ha l’ambizione di una “Project Company” con l’intenzione di sviluppare e implementare appunto progetti di Ricerca & Sviluppo nel campo della economia circolare e della sostenibilità. Implementare grazie alla rete di professionisti che Ri.Circola ha creato partendo da ricercatori universitari, liberi professionisti e “practitioners“, sempre indispensabili quando si vuole dare corpo e anima ad un progetto.
Per un mondo realmente più sostenibile secondo lei da dove si deve ripartire? Quale la roadmap da seguire?
La risposta è nella circolarità. Abbiamo passato troppo tempo a prendere, consumare e gettare. Abbiamo sprecato le risorse del pianeta buttandole via senza possibilità di recupero. È un atteggiamento che finirà per distruggerci, a meno che non andiamo a distruggere qualche altro pianeta. Se non ci mettiamo seriamente a recuperare tutto quello che è recuperabile, imitando la natura nel riciclaggio e nel riutilizzo dei materiali, finiremo con l’esaurire tutto quello che c’è.
L’Onu ha detto che oramai abbiamo passato il punto di “non ritorno”. Faremo auto elettriche senza i metalli per costruire le batterie? Consumeremo tutti i combustibili fossili fino a che non ci sarà più niente da bruciare? Costruiremo e coltiveremo fino a che non ci sarà più suolo fertile? La scienza deve darci gli strumenti per riutilizzare e recuperare tutto ciò che usiamo e per ridurre il nostro impatto sul pianeta. La scienza deve insegnarci la strada per una “gestione sostenibile” del progresso umano.
Vincenzo Petraglia