Il medico e collaboratore dell'European Academy for Environmental Medicine ci mette in guardia: in Italia c'è poca conoscenza sulle conseguenze delle sostanze tossiche e sulla possibilità di verificarle con strumenti diagnostici adeguati. Per questo occorre formare e informare la classe medica, ma anche la gente comune, a partire dai bambini
Sui danni causati dalle sostanze inquinanti si sa ormai molto, ma è necessario fare un salto di qualità perché queste informazioni diventino patrimonio comune e uno stimolo per uno stile di vita più consapevole. Antonio Maria Pasciuto, medico che da trenta anni lavora a Roma, per trovare le risposte ai suoi interessi in materia di medicina ambientale è dovuto andare in Germania. Ma è convinto che anche da noi sia possibile un cambiamento, facendo leva prima di tutto sulla formazione dei medici per sensibilizzarli ai problemi delle malattie ambientali e poi ricorrere ad analisi cliniche che valutino la presenza di sostanze tossiche nell’organismo.
Ci dà una definizione di medicina ambientale?
Si tratta di quella branca della medicina che si occupa delle patologie che hanno come causa o concausa fattori di tipo ambientale. All’inizio, l’ambito era quello della medicina del lavoro, che si occupa soprattutto dell’impatto di sostanze nocive sulla salute del lavoratore nelle realtà urbane a maggiore tasso di concentrazione industriale. Oggi si può continuare a parlare di malattie di tipo professionale ma, rispetto a trenta o quaranta anni fa, il problema si è esteso anche al comune cittadino che quotidianamente ha a che fare con acqua, suolo, aria inquinati e che accumula nell’organismo sostanze nocive. Per nostra fortuna, l’essere umano ha dei meccanismi che gli consentono di smaltire una parte di questi elementi tossici.
Lei si occupa in particolare dell’applicazione di strumenti diagnostici per capire se un paziente presenta sintomi da contaminazione ambientale. Ci spiega che cosa vuol dire?
Se da un lato oramai esiste una serie numerosa di studi scientifici che evidenziano i carichi inquinanti relativi all’acqua, aria e altri fattori, dall’altro manca la possibilità di indagare su quanto di queste sostanze nocive arrivino all’uomo,aprendo la strada alla prevenzione e a terapie specifiche. In definitiva non è stato fatto il salto dalla medicina ambientale alla medicina ambientale “clinica”. Se il medico, dopo attenta analisi, volesse verificare le conseguenze all’esposizione di sostanze tossiche attraverso l’indagine clinica sui liquidi biologici (urine e sangue), di un paziente, avrebbe serie difficoltà a farlo, almeno nel nostro Paese, perché mancano i laboratori dove fare le analisi. Se si sospetta del diabete non si fa che misurare la glicemia e così dovrebbe essere fatto se il medico pensa che l’asma di un bambino dipenda da contatti con muffe o con la formaldeide dei mobili o da prodotti chimici usati nei detersivi.
Ci può fare alcuni esempi pratici sull’utilità di questo tipo di analisi e in quali settori potrebbe essere applicata?
Di esempi se ne possono citare molti. Il Parkinson, ad esempio, si è visto che non colpisce solo gli anziani ma più di recente anche fasce di giovani, e molti studi scientifici hanno dimostrato che le malattie neurologiche degenerative possono insorgere anche per l’esposizione a sostanze chimiche. Il titanio usato in odontoiatria va bene, ma in alcuni pazienti può creare fenomeni tossici con infiammazioni croniche che comportano un rigetto abatterico di impianti costosi. E questo vale anche in ortopedia. Per i casi di sterilità maschile è conclamato che essi possono dipendere dal contatto con elementi nocivi, i cosiddetti distruttori endocrini. Ci sono poi situazioni come quella recente dell’arsenico riscontrato nelle acque di taluni comuni del Lazio in quantità elevate, molte volte più del consentito. La soluzione poco etica è stata quella di chiedere all’Unione Europea di alzare i limiti di tolleranza, non pensando che poi le dosi di arsenico si accumulano nell’organismo. Si può citare anche il caso del poliformismo genetico cioè un corredo genetico alterato che può causare una minore capacità, da parte di un individuo rispetto ad un altro, di smaltire la contaminazione di sostanze tossiche con condizionamenti per la salute. In tutti questi casi, con semplici analisi, sarebbe possibile indagare a fondo su alcune patologie o prevenire conseguenze dannose per la salute.
E qual è la situazione del nostro Paese?
Cosa si può fare per invertire la tendenza e per accrescere il livello di sensibilizzazione tra i medici?
Ci sono scambi di informazioni scientifiche su questi argomenti a livello internazionale, su internet e riviste di settore, ma la svolta dovrebbe riguardare la formazione dei medici. Un medico che si laurea oggi non è quasi a conoscenza di patologie di natura ambientale perché il piano di studi della laurea in medicina di fatto prevede pochissimi esami che affrontano queste tematiche. Lo sforzo dovrebbe essere nella formazione scientifica da parte delle università perché il medico possa avere gli strumenti per verificare a fondo certe sue ipotesi e dare una risposta scientifica ai dubbi del cittadino.
Ci sarebbero vantaggi sociali ed economici anche per il sistema paese con una prevenzione sanitaria sulle malattie ambientali?
Solo la riduzione all’esposizione a sostanze tossici potrebbe far diminuire talune malattie e di conseguenza anche l’uso di alcuni farmaci con una convenienza per il sistema sanitario nel suo complesso. Non dimentichiamo però che esiste un conflitto d’interessi nel mondo commerciale e spesso le multinazionali che vendono pesticidi per l’agricoltura, producono anche le medicine.
Ci sono Paesi all’avanguardia su queste tematiche e quali strumenti di prevenzione hanno adottato?
Posso citare il caso della Germania perché lo conosco bene. In quel Paese esiste un’associazione che si chiama Bund dove lavorano biologi, medici, chimici, sociologi, fisici, e che viene sempre consultato dal Parlamento prima che siano promulgate certe leggi per evitarne l’eventuale boicottaggio. Perché il Bund è così autorevole che l’opinione pubblica e i consumatori seguono attentamente i dossier e i pareri scientifici che emette di volta in volta. Di fatto è una questione di cultura e di consapevolezza del cittadino perché in Germania, di fronte ad un’ipotesi di sostanza inquinante con cui il consumatore potrebbe venire a contatto, si vuole capire e approfondire. Ma penso che anche qui da noiil livello di sensibilità e di conoscenza sia accresciuto e gli italiani non vedano l’ora di trovare una struttura che dia una risposta scientifica e indipendente su una serie di domande così importanti.Personalmente, avendo la fortuna di conoscere il tedesco e non avendo trovato nulla in Italia su questi temi, lavoro con un’associazione tedesca, l’European Academy for Environmental Medicine che si occupa di medicina ambientale.
L’organismo europeo di cui lei fa parte che cosa si propone di fare?
Prevalentemente si occupa di formare e di aggiornare medici attraverso corsi tenuti da docenti qualificati che arrivano da tutta la Germania e non solo. L’obiettivo è che questa attività di formazione si possa diffondere in tutti i Paesi europei. Per quel che mi riguarda, sto cercando, con molte difficoltà, di organizzare corsi anche in Italia e in Spagna, nazione dove il livello di attenzione è un po’ più alto rispetto a noi. L’associazione tiene inoltre congressi annuali e internazionali: per esempio l’ultimo ha riguardato le nanoparticelle ovvero componenti creati dalla tecnologia al di sotto del micron che si possono trovare nel dentifricio, nelle creme solari o nelle pareti della bottiglia del ketchup perché consentono un miglior scivolamento del prodotto. Senza informare che queste nanoparticelle possono finire in organi come i polmoni o il cervello con tutte le conseguenze del caso. Insomma vanno bene la tecnologia e i benefici del progresso, ma che questo non comporti un’accettazione passiva di elementi nocivi che possono creare danni per la salute.
Ma non ci sono leggi a riguardo?
Il legislatore ha sicuramente un compito difficile, ma i limiti posti dalla legge sono generici e non possono tener conto se l’elemento tossico è assunto da un anziano o da un bambino o da una persona che ha già altre patologie. E poi la normativa fa riferimento ai limiti per una singola sostanza tossica, ma noi la mattina quando usciamo di casa non ci mettiamo in contatto mica solo con il benzolo…insomma c’è anche il problema dell’ accumulo di diversi elementi tossici. Inoltre, spesso, la legislazione si basa su studi di settore condotti da istituti non indipendenti: cito il caso dell’elettrosmog, dove le indagini sono fatte per l’80/90 percento dalle aziende che vendono energia. In conclusionegli studi dovrebbero essere svolti da enti autonomi, l’informazione dovrebbe essere scientificamente corretta e l’opinione pubblica avere una maggiore consapevolezza. Tutto questo per sollecitare le istituzioni e le parti politiche ad assumere decisioni in difesa della salute.
C’è qualcosa che possiamo fare da subito, nel nostro quotidiano, per migliorare questo stato di cose?
Sì, in due direzioni: la formazione ai medici e l’informazione ai cittadini. I medici informati sarebbero così in grado di prescrivere anche quelle analisi che da noi oggi non è possibile fare. Sul secondo fattore si dovrebbe ripartire dai bambini di una certa fascia di età: penso a quelli delle scuole elementari perché sono i più ricettivi e spesso trasmettono a casa e in famiglia i nuovi concetti del vivere, dall’alimentazione corretta alla raccolta differenziata. Sono convinto che un cambiamento nella sensibilità al problema ambientale possa partire solo dalla base, da cittadini e medici, insomma, che chiedono di saperne di più.