Antonio Cera, laurea alla Bocconi e forno in Puglia, fondatore del "Manifesto futurista del pane", rilancia la cultura della panificazione in grado di creare economia
L’impasto di acqua e cereali macinati tra due pietre cotto su una pietra rovente è stato il primo pane della storia. Secondo un gruppo italiano di ricercatori, che ha pubblicato la notizia sulla rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti, l’uomo lo inventò 30.000 anni fa. «Il pane è alla base della storia dell’uomo, è il primo alimento di una grande tavola, è condivisione, incarna in sé la storia dei popoli, dei loro usi e costumi e della loro sacralità. È un elemento prezioso», dice Antonio Cera, titolare del forno Sammarco. Laurea in Economia alla Bocconi, forno a San Marco in Lamis in Puglia, a due passi dalla Grotta di Paglicci dove è stata ritrovata la farina più antica del mondo risalente a 32mila anni fa, ideatore della prima edizione dell’evento Grani Futuri dedicato interamente al pane, e del Manifesto futurista del pane, il cui obiettivo principale è creare una cultura del pane sia in chiave gustativa, sia nutrizionale.
Evento e manifesto che non potevano che vedere la luce in Italia, paese dove il pane è alla base della dieta mediterranea.
Il nostro è il Paese che ha un tipo di pane diverso in ognuno degli 8000 Comuni, anzi in ogni frazione di ogni Comune. Purtroppo, però, la cultura della panificazione è sempre meno importante. Capita sempre più spesso che anche negli alberghi a quattro stelle, venga servito il solito panino del quale non si conosce la provenienza: si tratta di pane che non crea emozione, né cultura.
Quando si è persa la cultura del pane?
Secondo me tutto è cominciato negli anni 80 con l’avvento dei “paninari”, in quel momento non si è più riconosciuto nel pane un elemento da valorizzare, fino a farne perdere l’identità. Da quel momento il nostro Paese non si è più riconosciuto nel valore del pane.
Parliamo anche di valore economico?
Certo. Negli anni si è inserita l’industria chimica, sono arrivati i miglioratori e tutto ciò che si affianca loro. Poi ha cominciato a prendere piede la produzione industriale, è stato abbandonato l’utilizzo del grano coltivato e molito in un determinato modo perché sbagliando i panificatori italiani hanno deciso di andare in concorrenza con l’estero, mentre dovrebbero puntare sull’artigianalità della produzione e nella diffusione di cultura. Per non parlare, infine, dell’assenza in Italia di una legge di tutela del settore e anche se in Commissione Agricoltura della Camera è in esame una proposta sulle disposizioni in materia di produzione e vendita del pane che stabilisce le regole fondamentali per la denominazione dei vari tipi di pane da commercializzare: fresco, intermedio, scongelato. Il problema, però, non è se il pane venduto sia stato scongelato, ma solo con quali farine e come è fatto.
La nascita del “Manifesto futurista del pane” si muove in questa direzione?
Oggi ci sono molti professionisti che tornano alla terra. Una buona parte, però, non lo fanno per scelta, ma perché hanno terreni di proprietà e non hanno un lavoro. Io, invece, ho fatto una scelta sperando di poter cambiare le sorti di quanto sta accadendo nel mercato nazionale e internazionale. Con Grani Futuri e con il “Manifesto futurista del pane” sto cercando di realizzare qualcosa fin qui inimmaginabile: creazione di cultura abbinata allo sviluppo di un certo modo di coltivare, di molire, di utilizzare un grano e alla creazione di economia.
Quali sono i punti principali del “Manifesto”?
Oltre a creare la cultura del pane si parla di come coltivare e trattare i terreni per
ottenere un pane pulito, vivo e vitale che partono dal livello minimo dell’agricoltura biologica per raggiungere l’optimum con l’agricoltura biodinamica e la permacoltura. Poi si parla di quali grani usare consigliando il ricorso ai grani italiani autoctoni, meglio se da antica semente e quindi caratterizzati da un minore tenore glutinico, delle tecniche di molitura (pietre naturali e limitato ricorso ai cilindri) e delle tipologie di farine fino all’impasto, la lievitazione, la lavorazione, la cottura e la conservazione per la quale sarebbe bene utilizzare tessuti naturali di stoffa grezza o teli di canapa.
Dove vuole arrivare con questo movimento?
Quando a muovere un uomo non è il profitto, ma un ideale si possono ottenere risultati inimmaginabili. Mi piacerebbe avere un’eco forte anche in campo internazionale: all’estero la gente deve sapere che in Italia si coltiva grano di qualità. Voglio creare tendenza andando controtendenza, così come è successo con il mio Panterrone (panettone di grano arso, ndr). Voglio arrivare lì dove non è arrivato Slow Food: mi piacerebbe sostituire il concetto di filiera con quello di catena alimentare in cui ogni partecipante interagisce con tutti gli altri.