Umiliazioni, manipolazioni, ricatti, isolamento sociale, controllo economico sulle donne. Sono violenze spesso sottovalutate ma in grado di lasciare profonde cicatrici. Ne parliamo con un esperto della materia...
Svalutazione, umiliazioni, manipolazioni, isolamento sociale, controllo economico, minacce e ricatti emotivi. Sono solo alcune delle svariate forme di violenza psicologica cui le persone, soprattutto donne, possono essere sottoposte. Un tipo di violenza che viene più di rado alla ribalta delle cronache e di cui si parla quindi molto meno rispetto agli abusi fisici cui purtroppo ancora tante, troppe, donne sono sottoposte. Un genere di violenza forse ancora più vigliacca e subdola, in grado di lasciare cicatrici profonde nell’animo di chi le subisce, che bisogna riconoscere e condannare senza possibilità di appello, spesso anticamera di tragedie come i tanti femminicidi cui ancora oggi siamo costretti ad assistere.
Abbiamo incontrato un esperto della materia, Alessandro Calderoni, psicologo e psicoterapeuta, fondatore di Relief, un “pronto soccorso” psicologico per le emergenze e per il benessere emotivo delle persone. Per capire, insieme con lui, quali sono i tratti che accomunano gli uomini violenti e come riconoscerli. E soprattutto capire come tenersene alla larga e cosa fare per scardinare quella cultura del possesso e della discriminazione di genere che porta ancora oggi a così tanti, inaccettabili, per una società che si definisce civile, femminicidi.
In cosa consiste esattamente la violenza psicologica e in che modalità si esprime?
La violenza psicologica è una forma di abuso che colpisce i contenuti e il funzionamento della mente della vittima, in termini di pensieri, emozioni e sensazioni, arrivando a minarne l’autostima, la capacità di autodeterminazione e il senso di sicurezza. Può manifestarsi in diverse modalità: svalutazione, umiliazioni, manipolazioni, isolamento sociale, controllo economico, minacce e ricatti emotivi. A differenza della violenza fisica, non lascia segni visibili come ematomi o cicatrici, ma può avere conseguenze devastanti a lungo termine, come ansia, depressione, disregolazioni fisiologiche e un profondo senso di impotenza e di sfiducia.
Ci sono dei segnali per capire se una donna sta subendo violenza psicologica?
I segnali sono sottili, aspecifici e non univoci, il che rende più complessa l’individuazione della situazione dall’esterno. La loro compresenza e convergenza può costituire un indizio più consistente. Tra i principali: isolamento sociale, con una progressiva riduzione dei contatti con amici e familiari; cambiamenti nell’umore, con ansia, depressione o senso di colpa immotivati; abbassamento dell’ autostima, spesso accompagnato da espressioni di autosvalutazione; timore costante di sbagliare o di non soddisfare le aspettative del partner; timore di perdere contatto o di mettere in gioco la relazione; difficoltà a prendere decisioni, anche quelle più semplici; dipendenza emotiva e/o economica dal partner.
Segnali che hanno precise conseguenze su chi ne è vittima…
Sì, la manipolazione psicologica, il Gaslighting, porta la vittima a dubitare della propria percezione della realtà; le continue critiche mirano a svalutare e a minare la fiducia in sé stessi; il controllo, il monitoraggio ossessivo dei movimenti, delle frequentazioni, delle finanze o delle attività quotidiane (on e off line), pone la vittima in una posizione subalterna; l’isolamento, con la limitazione dei contatti sociali della vittima per controllarla, impoveriscono il suo mondo relazionale; le minacce, implicite o esplicite che siano, creano un clima di angoscia costante nella vittima…
Possiamo tracciare un profilo psicologico di chi perpetra violenza sulle donne?
Non esiste uno psicotipo valido “per ogni stagione” ma è possibile affermare che gli uomini violenti nei confronti delle partner presentano spesso uno o più tratti comuni. Fra questi, la bassa tolleranza della frustrazione, l’incapacità cioè di gestire il rifiuto, la lontananza o l’assenza; il bisogno costante di controllo e di conferma della propria superiorità. E ancora, la gelosia ossessiva, con percezione della donna come diritto o proprietà, in un humus culturale patriarcale, il senso di inadeguatezza spesso ipercompensato attraverso atteggiamenti autoritari o aggressivi, la difficoltà a gestire le emozioni, irascibilità, impulsività.
Qual è la genesi di tutta questa violenza che ha come vittime le donne?
La violenza contro le donne è il prodotto complesso e infausto di un insieme di fattori culturali, sociali e psicologici. Tra quelli principali trovano posto gli stereotipi di genere, che rafforzano ruoli di dominio e sottomissione; la cultura patriarcale, che in estrema sintesi considera le donne come esseri inferiori; modelli educativi che non insegnano il rispetto reciproco (e non solo tra uomo e donna); possibili traumi personali o familiari male elaborati da parte degli aggressori, che possono essere stati a loro volta vittime o aver assistito a scene di violenza domestica ripetuta.
Forse affonda le sue radici in una cultura del possesso, in una cultura che rifiuta i “no”…
Esattamente. Una cultura del possesso, che considera la donna come un oggetto da controllare, è alla base di molte forme di violenza. Il rifiuto dei “no” è un segnale di immaturità emotiva e incapacità di accettare l’autonomia dell’altro. Questa mentalità, radicata in certi contesti culturali, viene perpetuata da modelli educativi e sociali che non addestrano al rifiuto, alla frustrazione, al cambio di prospettiva, al rispetto dell’altrui punto di vista.
Una cultura che prolifera quindi sempre più anche fra i giovani…
Sì, purtroppo alcune ricerche mostrano che atteggiamenti di controllo e possesso sono sempre più diffusi tra gli adolescenti. Fenomeni come il cyberbullismo, il revenge porn e la gelosia ossessiva online sono segnali allarmanti. Tutto questo può suggerire che i giovani spesso assorbono modelli tossici da media, famiglia e società, e li riproducono nelle loro relazioni.
Cosa si può fare per invertire la rotta, per scardinare questa cultura “malata”? Da dove bisogna partire?
Bisogna partire dall’educazione, promuovendo uguaglianza e rispetto reciproco e inserendo veri e propri training per la regolazione delle emozioni fin dall’infanzia. Interventi mirati nelle scuole, campagne di sensibilizzazione e programmi di supporto per le famiglie possono fare la differenza. Inoltre è fondamentale irrigidire le leggi contro la violenza di genere e garantire un’effettiva protezione per le vittime.
A livello singolo, che consiglio possiamo dare alle donne per sottrarsi e non accettare più alcuna forma di violenza nei loro confronti?
Consiglio alle donne di imparare a riconoscere i segnali di abuso e di non giustificarli mai. È importante rompere il silenzio, parlarne con persone fidate o con professionisti, e non isolarsi. Lavorare sulla propria autostima e indipendenza, anche economica, può essere un passo fondamentale per uscire da una relazione abusante.
Di per sé la psicoterapia è anche uno strumento di prevenzione per le non-ancora-vittime. Infatti se è vero che gli aggressori hanno tratti riconoscibili, è vero che li hanno anche le vittime: sono più frequentemente vittimizzate donne con bassa autostima, alto isolamento sociale, elevata empatia, tendenza al senso di colpa, all’evitamento dei conflitti e alla dipendenza affettiva, il tutto magari aggravato da precedenti relazioni problematiche o traumi passati.
Diciamo che quando i due profili (quello dell’aggressore e quello della vittima) si incontrano, l’incastro è perfetto e la sofferenza è assicurata anche dal puzzle personologico: lui ha bisogno della dipendenza e dell’adorazione di lei, lei si sente l’eletta e quindi si immola per lui, e da lì la spirale del controllo e dell’annientamento. Si badi bene: se parliamo di violenza psicologica, questa può avvenire con uguale intensità indipendentemente dal genere e dall’orientamento dei membri della coppia. Accade cioè anche tra donna e uomo, uomo e uomo, donna e donna.
Che strumenti pratici ha nelle proprie mani per chiedere aiuto e farsi appunto aiutare?
Oltre che alle forze dell’ordine, le donne possono rivolgersi ai centri antiviolenza disseminati sul territorio, dove possono trovare supporto psicologico, legale e sociale. Inoltre esiste il numero di telefono dedicato: 1522. Fondamentale l’ausilio di uno psicoterapeuta e magari anche di un gruppo di auto-mutuo aiuto, per condividere esperienze e sentirsi meno sole.
E agli uomini – quelli violenti certamente, ma anche a quelli non violenti, ma che spesso non fanno abbastanza per condannare senza appello e contrastare la violenza di genere – cosa si può dire?
Il primo problema per gli uomini violenti è riconoscere di avere un problema. Non essendo normalmente armati di grande empatia, possono più facilmente comprendere che le conseguenze delle proprie azioni anche sulla loro stessa esistenza non saranno rosee, o che a volte diventano interpreti di una specie di transgenerazionalità della violenza, se si accorgono di fare ciò che hanno visto o subito. Per loro l’auspicio è di cercare aiuto in tempo, tramite percorsi terapeutici mirati alla gestione della rabbia e al rispetto delle relazioni.
Agli uomini non violenti chiederei di diventare agenti e promotori del cambiamento: denunciare atteggiamenti abusanti, educare figli e figlie al rispetto e farsi promotori di una cultura di parità e di non violenza. La soluzione è una cultura dell’assertività: se ciascuno riuscisse a riconoscere i propri diritti e allo stesso tempo quelli altrui, nessuno avrebbe bisogno di imporsi o difendersi.
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Vincenzo Petraglia