Realtà virtuale, Internet, intelligenza artificiale stanno modificando profondamente i nostri comportamenti con conseguenze non sempre prevedibili. Ce le spiega Lorenzo Ait, autore di un interessante libro sul tema
In un mondo governato dalla Rete, in cui il virtuale spesso si sovrappone al reale, i nostri stili di vita, le nostre relazioni, i nostri comportamenti non possono che risultare influenzati, spesso in maniera del tutto inconsapevole, proprio da Internet, il posto in cui ogni giorno passiamo sempre più tempo e facciamo sempre più cose, come spiega molto bene nel suo libro La Nazione liquida (Roi Edizioni) Lorenzo Ait. Imprenditore e TEDx speaker, oltre che consulente per aziende in tema di startup e nuove tecnologie, in quest’intervista ci parla degli scenari futuri che ci attendono e delle nuove opportunità offerte dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale, compreso un nuovo modo di fare impresa, l’unico che consentirà di essere davvero vincenti sul mercato.
Partiamo da principio, il suo libro, La Nazione liquida. Perché questo titolo?
Questo libro utilizza l’accezione “liquido” per identificare quello stato ibrido tra “analogico” e “digitale” ormai inscindibile. Finché la bilancia con la quale mi peso invia i dati al frigo di casa e li aggiorna col software del dietologo che programma il mio prossimo ordine al supermercato, possiamo ancora parlare di “Internet of things”, perché possiamo ancora distinguere tra “analogico” e “digitale”. Quando non distinguo più questo passaggio e le mie azioni agiscono contemporaneamente al livello fisico e virtuale, in quel caso la divisione tra analogico e digitale si è liquefatta divenendo un ibrido che definiamo “liquido”.
E questo cambiamento non solo è già avvenuto ma lo ha fatto a livello globale creando – nei fatti – una sorta di luogo governato da leggi, consuetudini e burocrazia “propri”. Una sorta di sovrastato nazionale all’interno del quale è possibile dialogare con la nazione che abitiamo sia a livello sociale che civico e legislativo. Abitiamo due nazioni: la seconda da turisti, finché non ne richiediamo la cittadinanza e per richiederla occorre comprenderne le regole, conoscere il funzionamento e l’ordinamento di questa “Nazione liquida”. Il libro racconta questo in 17 “indizi”.
La Rete e i social media fanno sempre più parte della nostra vita. Come questa nuova realtà ibrida, tra analogico e digitale, sta plasmando le nostre esistenze?
La tecnologia agisce come una sorta di cavallo di Troia in grado di modificare le nostre abitudini bypassando la necessità di chiederci di operare prima una scelta consapevole. Abbiamo smesso di utilizzare lo stradario perché ci hanno fornito una alternativa tecnologica migliore analogamente a come smettemmo di usare le candele per illuminare le stanze con l’arrivo della luce elettrica. Il processo di modifica delle nostre abitudini è cosa nota, l’unica differenza è che non siamo abituati alla velocità con la quale oggi viaggia la tecnologia.
“Prima” – con quel prima intendiamo in qualunque epoca della storia umana prima di quella attuale – ad una tecnologia occorreva un lasso di tempo dai 50 ai 150 anni per impattare a livello planetario in modo rilevante. Chi ha visto un treno la prima volta è morto pensando di avere ragione nell’affermare che mai avrebbe raggiunto la velocità di un cavallo da corsa: ci volle mezzo secolo per smentirlo. Chi oggi ha quarant’anni ha visto il susseguirsi di tecnologie che hanno modificato radicalmente le abitudini quotidiane a livello globale: computer, personal computer, cellulari, smartphone, internet, social network, blockchain.
E parliamo di tecnologia di massa, non di torri d’avorio e applicazioni di nicchia: parliamo di come le famiglie fanno la spesa, di come gli individui si conoscono e si relazionano fra loro, di come scelgono di innamorarsi. Oggi non c’è più distinzione tra analogico e digitale – mentre parliamo Siri e Alexa mi ascoltano e ciò che diciamo modifica l’algoritmo che programmerà lo schermo del prossimo device che accenderemo, vale a dire la finestra con la quale guardiamo il mondo. E il fatto è che non ci rendiamo conto di stare interagendo a livello digitale mentre sul divano sorseggiamo un caffè analogicamente: una singola azione che impatta contemporaneamente sui due mondi è quell’ibrido che definiamo “liquido”. La risposta breve è sì, l’ha sempre plasmata ma oggi lo fa ad una velocità insostenibile per la nostra capacità di adattamento: la subiamo.
Anche i benefici però sono diversi per gli individui e le aziende…
Le conseguenze peggiori della lettura della società liquida di Baumann è che la persona ha smesso di essere “individuo” ed è diventato “consumatore”. Se però la guardiamo dal punto di vista del business liquido – e sono perfettamente consapevole che Baumann si rivolterebbe nella tomba sapendo che ho preso le sue teorie e le ho riproposte su un modello imprenditoriale – il mondo è in mano a multinazionali che hanno un solo scopo nella vita: rendere sempre più semplice per noi fare i soldi grazie a loro.
Fino a ieri potevo fare l’esempio dei social network ma nelle ultime settimane preferisco fare quello di Amazon, che ha investito una quantità infinita di denaro in ricerca e sviluppo per creare la catena di distribuzione del fresco. È vero, forse chiuderà qualche supermercato ma certamente molti piccoli produttori agricoli potrebbero giovarne, è ancora presto per capire le conseguenze ma le opportunità che si intravedono sono parecchie.
E per chi le sa cogliere la nazione liquida offre un futuro roseo: la prossima generazione sarà più ricca di quella attuale, che, lo ricordiamo, è la prima ad essere più povera di quella precedente; non è affatto raro già oggi assistere a spettacoli di figli che guadagnano più dei genitori semplicemente perché capiscono meglio le tecnologie e le opportunità di questa società liquida. Il risvolto negativo di tutto ciò è che si creerà un nuovo tipo di effetto clessidra legato alla capacità di sfruttare i sistemi informatici: chi lo saprà fare creerà sistemi per i quali gli altri lavoreranno ma non sto dicendo nulla di nuovo basta guardarsi intorno.
Una delle conseguenze – scrive nel suo libro – è anche quella di favorire un modello di business cooperativo, che nelle aziende tech della nazione liquida sta soppiantando il classico modello competitivo. Cosa cambia nella pratica?
Non dobbiamo dare all’approccio cooperativo un’accezione morale: il modello competitivo semplicemente funziona meno bene quando a competere ti ritrovi multinazionali che agiscono come dei leviatano. In una società che non ha confini e dove tutto è connesso, è molto più semplice mettere in atto dei meccanismi di cooperazione: ad insegnarcelo sono gli studi sull’evoluzione. Cito uno per tutti Richard Dawkins nella splendida metafora falchi/colombe. Cooperare è l’unica scelta premiante nella nazione liquida poiché l’alternativa è una competizione continua, costante, logorante e insostenibile. E se questo vale per le grandi aziende in realtà è ancora più valido per le piccole realtà – parlo delle Pmi – che possono cooperare creando dei veri e propri merge pur servendo i propri clienti nella propria zona unendo sia competitor che per limite geografico costituiscono minaccia.
È questo il futuro, anche per le aziende di altri settori? Con quali vantaggi?
I settori si mescolano, vengono ripensati, le tecnologie soprattutto l’intelligenza artificiale sta entrando prepotentemente in tutto ciò che non è valore aggiunto. Pensiamo al settore della contabilità dove un’intelligenza artificiale può sostituire interi reparti. Pensiamo a tutti quei commercialisti schiavi di operazioni a basso valore aggiunto che oggi possono essere impostate premendo un bottone. Pensiamo alla troupe cinematografica che per girare una scena d’azione aveva bisogno di elicottero, elicotterista, cameraman, paramedici pronti ad intervenire, ambulanza e pronti a partire… oggi la stessa scena si può girare con un drone.
Mia figlia ha lanciato a nove anni un business legato al prestito di libri, nella sua classe stanno girando film in stop motion come supporto ai temi scolastici. Posso dire che nessun settore è immune a questa rivoluzione perché specie quando si tratta di tecnologie disruptive la deflagrazione coinvolge anche settori limitrofi non direttamente interessati e quindi se mi chiede quali vantaggi, e dove, so solo dirle che la vera opportunità sta nell’inventarsi questi vantaggi, nell’accorgersi prima degli altri, nel vederli nel capirli. Il mestiere dell’imprenditore è sempre stato quello di vedere le opportunità che gli altri non vedono, oggi semplicemente ce ne sono di più.
Lei nel libro descrive Internet come un vero “Sovra-Stato”, una struttura sovranazionale con regole proprie che possono permetterci di aggirare i limiti del mondo fisico. Questo implica anche dei rischi…
Eccome. È fin troppo recente l’episodio legato a TikTok della bambina istigata al suicidio. L’errore più grande che potremmo fare è dare la colpa allo strumento: duecento anni fa si sconsigliava alle donne di leggere perché quella tecnologia avrebbe messo in testa strane idee deviandole dal diventare bravi mogli.
Il problema di questa tecnologia che viaggia molto velocemente è che non siamo preparati ad arginarla: con le criptovalute ci hanno provato ma poi alla fine si sono dovuti arrendere all’evidenza e adesso anche le banche investono in Bitcoin. Quello che spaventa di più di una tecnologia è la perdita di controllo quando questa diventa veloce come quella che stiamo osservando: sono come tessere del domino che messe in fila iniziano a cadere una dopo l’altra, ci stiamo divertendo a osservare lo spettacolo ma è come se una parte di noi iniziasse ad accorgersi che le tessere che stanno cadendo adesso non erano state messe lì da noi in precedenza e ci manca il terreno sotto i piedi.
Quali sono gli altri rischi di questa nuova realtà ibrida? Penso, per esempio, al “potere” dell’intelligenza artificiale, alla privacy e alla gestione delle informazioni, o, ancora, i rischi da sovraesposizione ai social da parte dei giovanissimi…
Quello che ci fa paura come dicevo dell’intelligenza artificiale è il pensiero che possa comportarsi come un essere umano ed iniziare a perseguire egoisticamente i propri interessi a discapito del bene altrui. Sinceramente trovo significativo il fatto che ciò che temiamo di più di un’intelligenza artificiale è che possa comportarsi in maniera non artificiale.
Cosa significa oggi innovare, visto che sembra essere stato creato e inventato praticamente tutto?
«È già stato inventato tutto l’inventabile». Lo disse Charles H. Duell, un funzionario dell’ufficio brevetti nel 1899. Si sbagliava. E sinceramente credo si sbagli ancora. La cosa interessante di un’innovazione è quello che Peter Thiel definisce il passaggio da zero a uno che è proprio il concetto di innovazione dirompente che spesso la tecnologia porta con sé: la prossima intenzione dirompente non sarà certo un nuovo social network… non sarà qualcosa che esiste nella sua versione migliorata. Ci sembra che sia stato inventato tutto perché non è così semplice pensare a qualcosa di nuovo ma è sempre stato così, finché non arriva qualcuno che lo inventa e te lo fa sembrare ovvio. In realtà siamo semplicemente all’inizio della nostra carriera di inventori come genere umano.
Quali sono secondo lei gli ambiti che più catalizzeranno innovazione in futuro?
Guardando al futuro prossimo le sfide sono due: ibridare la tecnologia wireless con la mente umana e riversare una coscienza all’interno di una macchina. Non sto parlando di fantascienza, Elon Musk ci sta già lavorando e non è il primo.
In base alla sua esperienza di consulenza in ambito startup, perché secondo lei in Italia, pur in presenza di idee talvolta eccellenti, la gran parte delle startup non supera la prova del mercato e c’è un alto tasso di mortalità delle nuove imprese?
Perché il modello startup nasce per funzionare in ecosistemi startup dove hai accesso al capitale paziente, un mindset fail fast, aziende che dialogano con le università, e possibilità di raggiungere la soglia dello squalo che ti permette di rivendere per miliardi un’azienda in perdita per milioni, come il caso di WhatsApp acquisita da Facebook. In assenza di un ecosistema startup che senso utilizzare quel modello di business?
Che consigli possiamo dare alle startup per sopravvivere alla prova del mercato?
Non seguite il modello startup. Esistono modelli pensati per funzionare in un ecosistema ostile alle imprese, come per esempio l’Italia, caratterizzata da una burocrazia molto onerosa e alta tassazione e da un’opinione pubblica che non vede di buon occhio l’imprenditore. Personalmente mi sento di portare acqua al mio mulino e preferisco farlo in maniera diretta e palese: il protocollo liquido o business liquido, se preferite, è un’ottima alternativa. Ma direi che qualunque modello profit first che ti permetta di andare a break even entro i primi sei mesi va bene.
Quali sono i settori più promettenti per investire con una nuova impresa?
Nella nazione liquida il modello di business è diventato il core business. Qualsiasi grande azienda che si occupi di snellire o risolvere problemi di logistica.
Quali sono le professioni, invece, più richieste oggi e nei prossimi anni dal mercato?
Fino a qualche anno fa avrei dato una risposta abbastanza certa, oggi invece mi rendo conto che siano le soft skills il vero career stopper che impedisce di fare carriera; cambiano gli scenari e gli strumenti troppo velocemente: è come se mi stesse chiedendo di indicare un volto specifico fra i passeggeri di un treno in corsa.
Un’azienda saggia, “wise” appunto, di cosa avrebbe bisogno secondo lei?
Di un programma di company learning welfare trasversale ed accessibile alle varie risorse e settori che permetta di sviluppare competenze a T, di essere cioè capaci di fare più cose e di eccellere in particolare su una di esse. E di indagini di clima ripetute trimestralmente orientate in particolar modo allo stato di salute della comunicazione interna.
Vincenzo Petraglia