Le certificazioni internazionali non bastano a garantire il rispetto dei diritti dei lavoratori nelle fabbriche del sud del mondo. Secondo i promotori della Clean Clothes Campaign possono fare molto di più le scelte e le pressioni dei consumatori
Secondo i promotori della Clean Clothes Campaign, oggi più che mai è importante esercitare una pressione internazionale sui grandi brand della moda perché, a loro volta, impongano un maggiore controllo sui propri fornitori situati nei Paesi del Sud del mondo.
Finora, invece, i marchi più “sensibili” si sono limitati a introdurre nei contratti di fornitura generiche garanzie in materia di tutela del lavoro o di norme di sicurezza. Ma i fornitori, una volta ricevuta la commissione, badano soprattutto a consegnare in tempo lo stock di prodotti pattuito cercando di ritagliarsi il più alto margine di guadagno magari subappaltando il lavoro ad altre aziende più piccole. Tanto, chi controlla? Nessuno.
«Una forte pressione sui grandi marchi potrebbe, di rimbalzo, convincere i governi locali ad aumentare i controlli sui luoghi di lavoro e anche garantire quanto prima che gli edifici attualmente usati per scopi industriali rispettino gli standard di sicurezza nazionali ed internazionali» dice Deborah Lucchetti, portavoce italiana di Abiti Puliti.
«Spesso i brand si sentono a posto perché l’azienda fornitrice ha una certificazione internazionale. Ma purtroppo, in assenza di un sistema di controlli super partes, le certificazioni possono avere scarso significato in quei paesi dove tangenti e corruzione sono la norma».
È inquietante, ad esempio, che proprio l’azienda pakistana Ali Enterprises, finita in cenere nel settembre 2012 (300 morti), avesse appena ricevuto la prestigiosa certificazione SA8000 che attesta la conformità agli standard internazionali in nove aree sensibili, tra cui salute e sicurezza, lavoro infantile e salari minimi garantiti.
Con una simile certificazione i grandi marchi committenti possono affermare che i loro prodotti vengono lavorati in modo corretto. Mentre la realtà è molto diversa.
«Se prendiamo l’esempio della Turchia – prosegue Lucchetti – uno dei Paesi chiave della produzione tessile a livello internazionale, scopriamo che ben l’80 percento delle operaie e degli operai appartengono all’economia sommersa.
I dati ufficiali parlano di seicentomila lavoratori, ma in realtò sono tre milioni coloro che fanno girare uno dei business più importanti per l’export turco. Milioni di lavoratori fantasma che non possono reclamare diritti, ottenere licenze di maternità, pensione, ferie, indennità di malattia».
Altro esempio lampante di come le norme vengano aggirate è quello del sandblasting, la micidiale tecnica di schiaritura dei jeans ufficialmente condannata da molti brand della moda.
Una verifica fatta da CCC in sette stabilimenti bengalesi, ha rilevato che, qualunque siano state le istruzioni dei committenti, il sandblasting viene regolarmente impiegato, magari di notte per non dare nell’occhio.
I principali marchi committenti identificati sono H&M, Levi’s, C&A, D&G, Esprit, Lee, Zara e Diesel, la totalità dei quali, ad eccezione di Dolce e Gabbana che ha sempre rifiutato di fornire informazioni sulle sue tecniche produttive, sostiene di avere abolito l’uso della sabbiatura nelle proprie filiere internazionali.
«La situazione è molto grave» dichiara Deborah Lucchetti, «al contrario di quanto sostengono pubblicamente, i marchi non sono disposti a modificare lo stile dei loro prodotti o a modificare i tempi e costi di produzione per permettere ai fornitori di adottare metodi alternativi che comportano lavorazioni più sicure».
Certo, se i consumatori cominciassero a lasciare sugli scaffali i jeans sbiaditi o stracciati (i buchi sono fatti con l’acido) forse anche gli stilisti sarebbero costretti a fare uno sforzo di creatività e sfornare qualche nuova idea. Più sostenibile.