Wise Society : Cos’è il Greenwashing? Come difendersi dalle false aziende green

Cos’è il Greenwashing? Come difendersi dalle false aziende green

di Maria Enza Giannetto
12 Aprile 2022

Sempre più aziende utilizzano la pratica ingannevole come strategia di marketing per sembrare amiche dell'ambiente e catturare l'attenzione dei consumatori attenti alla sostenibilità. Una pratica sanzionata in Italia dallo Iap e dall'antitrust e da cui ci si può tutelare

Una pennellata di verde per sembrare più amico dell’ambiente. Se si dovesse spiegare in modo informale cosa significa Greenwashing, probabilmente si potrebbe utilizzare questa esemplificazione. Il termine greenwashing è infatti il modo più diretto per spiegare come imprese, organizzazioni o istituzioni politiche usino strategie finalizzate a costruire una propria immagine ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale. Una pratica con la quale cercano di attirare il consumatore ecosensibile mediante un’immagine che dissimula una sostenibilità ambientale dei processi produttivi o dei prodotti. E, in molti casi, anche un modo per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.

Greenwashing

Foto di Paweł Czerwiński su Unsplash

Definizione e significato di greenwashing

Il termine è un neologismo, una sincrasi tra le parole anglosassoni green (verde come simbolo dell’ecologismo) e washing (lavare), viene normalmente tradotto in italiano con l’espressione “darsi una patina di credibilità ambientale“. A parlarne per la prima volta fu l’ambientalista statunitense Jay Westerveld che lo utilizzò nel 1986 per stigmatizzare la pratica delle catene alberghiere che facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani, celando in realtà una motivazioni di risparmio economico.

Il ricorso alla pratica del greenwashing si è intensificato a partire dagli anni novanta. Da più di un ventennio le imprese, cercando di affrontare la crescita dell’attenzione dei consumatori verso i temi della tutela dell’ambiente e dell’incidenza dell’impatto ambientale sui propri consumi, hanno cercato di rispondere con un rinnovato messaggio ambientale, che in qualche caso (troppi) però è solo di facciata.

Un lavaggio verde, quindi, che di solito si manifesta con dichiarazioni ingannevoli e vaghe, che si focalizzano su un unico dettaglio per nascondere tutto il resto. Di fatto il greenwashing è una strategia di marketing, caratterizzata dal presentare una immagine aziendale accomodante e schierata a favore delle questioni ambientaliste, spesso allo scopo di far abbassare l’attenzione sugli eventuali difetti del prodotto.

Plastic

Photo by Merakist on Unsplash

Finta sostenibilità: esempi di greenwashing

I tentativi di lavaggi verdi nel mondo e nel nostro paese non mancano. Tutte pratiche che passano dal sorvolare su alcuni aspetti produttivi ponendo l’attenzione, in modo ingannevole, su qualche virtù di un prodotto fino all’enfatizzazione di numeri, percentuali o dell’impegno verso l’ambiente.

Tra i casi più noti di greenwashing c’è, senza dubbio, quello della compagnia petrolifera Chevron che, per convincere i propri clienti del suo valore aggiunto rispetto alla concorrenza suggerivano come i dipendenti della compagnia fossero impegnati attivamente nella tutela di orsi, farfalle, tartarughe.

 Molto conosciuto è anche il caso Coca-Cola Life che, qualche anno fa, si propose come una bibita a basso contenuto calorico grazie alla presenza della stevia al posto dello zucchero.

Tra gli altri esempi, c’è quello di Shell, multata dall’Authority in Inghilterra, per via di uno spot che dichiarava che l’estrazione di petrolio dalle sabbie bituminose del Canada era sostenibile (nonostante le emissioni fossero dieci volte superiori a quelle del greggio).

In Italia, tra i casi più noti di greenwashing c’è lo spot di Ferrarelle che pubblicizzava la bottiglia a “impatto zero” promettendo la compensazione della CO2 emessa, con la tutela di nuove foreste: l’azienda è stata multata perché “impatto zero” lascia intendere che la Co2 viene interamente compensata.

Nel 2010 San Benedetto è stata multata per avere presentato la propria bottiglia di plastica come “amica dell’ambiente” (pubblicizzando le nuove bottiglie come prodotte con meno plastica, meno energia e più amore per l’ambiente). Nel 2012 Sant’Anna è stata multata per l’eco-bottiglia “BioBottle” perché nella pubblicità sull’eco-bottiglia riportava pregi ambientali superiori alla realtà.

Foto di Campaign Creators su Unsplash

Greenwashing in Italia

Nel nostro paese, fino al 2014 in Italia non esisteva un riferimento legislativo specifico per il greenwashing. Il controllo era affidato all’Antitrust sotto la disciplina della “pubblicità ingannevole”. Nel marzo 2014, l’Istituto Autodisciplina Pubblicitaria ha pubblicato, però, la 58° edizione del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, che propone un primo riferimento all’abuso di diciture che richiamino la tutela ambientale:

“La comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili. Tale comunicazione deve consentire di comprendere chiaramente a quale aspetto del prodotto o dell’attività pubblicizzata i benefici vantati si riferiscono”.

Esistono, inoltre, vari strumenti di marcatura ed etichettatura che sottolineano l’aderenza delle aziende ai regimi di tutela ambientale e risparmio energetico. Ci sono, ad esempio le certificazioni secondo gli standard EMAS (standard europeo che prevede la pubblicazione di una “dichiarazione ambientale” che tenga conto di vari indicatori) e quelle l’ISO 140001 (riferimento internazionale per linee guida e i requisiti minimi per ottenere una certificazione).

Inoltre, negli ultimi anni, sono nate varie etichette ambientali o eco-etichette finalizzate proprio a orientare la scelta del consumatore verso i beni che puntano a minimizzare l’impatto ambientale. Alcuni di queste etichette sono obbligatorie per legge (come il marchio CE per l’Unione europea, l’etichetta energetica per gli elettrodomestici o i contrassegni per prodotti tossici o pericolosi), altre invece vengono ottenuti in seguito all’istruttoria da parte dell’azienda (standard ISO 14024, ISO 14021, Dichiarazioni Ambientali di Prodotto e ISO 14025, le DAP; l’Ecolabel).

Come difendersi e scegliere marchi (davvero) sostenibili

Il suggerimento principale per difendersi dalla velleità del greenwashing è quello di avere spirito critico e osservatore. Essere un consumatore consapevole aiuta a evitare di cadere nelle trappole. Per questo è importante leggere le etichette, le informazioni riportate sui prodotti e verificare che termini come “green” o “eco – friendly” abbiano davvero riscontro. La rete è di grande aiuto perché permette a chiunque di raccogliere anche preziose informazioni riguardanti la reputazione dell’azienda. On line ci sono vari siti di consumatori che denunciano il greenwashing, come Goodguide, Il Fatto Alimentare, The sins of Greenwashing,  GreenWikia.

Idea

Foto AbsolutVision su Unsplash

I consigli per difendersi dal greenwashing

Difendersi dal greenwashing è possibile e ognuno di noi può utilizzare strategie per scegliere aziende davvero sostenibili, orientando i propri acquisti in veste di consumatore consapevole. Ecco qualche consiglio utile.

  1. Controllare le certificazioni ambientali e in presenza di loghi informarsi sui loro criteri di assegnazione oltre, ovviamente, a verificare la veridicità di queste certificazioni.
  2. Informarsi sulla reale sostenibilità dell’aziende cercando informazioni
  3. Non cadere nella trappola dei colori e degli spot: se le informazioni sono vaghe oppure troppo tecniche, probabilmente, nascondono qualcosa.
  4. Usare le app e la rete. Per molti prodotti esistono app che permettono di conoscere, in tempo reale, l’impronta ecologica.

Maria Enza Giannetto

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