Negli ultimi anni le fondazioni bancarie si sono troppo spesso sostituite al ruolo delle associazioni. Ora serve un "welfare 2.0” collaborativo e inclusivo.
Non è la Rai la Public Broadcasting Service. Non ci sono interruzioni pubblicitarie né un canone da pagare ogni anno: i finanziamenti per la Tv “pubblica” made in Usa arrivano dalle donazioni dei 90 milioni di telespettatori. Il governo americano non mette bocca sui programmi (di alta qualità, documentari e inchieste) perché a gestire il network non profit ci sono fondazioni e associazioni. La Pbs nasce nel 1970, quando la National educational Television, va in pensione. America, patria della filantropia, ma non solo. L’utilitaria Made in India, la Tata Motors, è controllata da due charitable trusts, che destinano parte dei proventi della società a interventi di sviluppo sociale nel subcontinente. E in Germania la Robert Bosch Stiftung controlla il 92% della Bosh: in 40 anni di vita ha devoluto un miliardo di euro, costruendo ospedali e centri di ricerca.
Sono solo tre esempi di economia sociale dal mondo, dove il ruolo del pubblico viene svolto da privati, per sostenere politiche del bene comune. Si tratta fondazioni non profit, legate alla generosità degli individui o di grandi e piccole aziende, che riescono ad intervenire laddove governi e amministrazioni locali, per mancanze di risorse, o per mancanza di opportunità nel caso del mercato, faticano ad arrivare. Il futuro del Welfare sarà in mano ai grandi (come Bill&Melinda Gates) e piccoli filantropi?
In Italia, la filantropia è ancora un’illustre sconosciuta. Sommando le erogazioni di organizzazioni non profit, fondazioni private, aziende, banche e donazioni individuali, l’Italia raggiunge appena il 104° posto nell’autorevole classifica mondiale della beneficenza del 2011, redatta dalla britannica Charities Aid Foundation (www.cafonline.org), superata da tutti i Paesi industrializzati. Certo, c’è il fisco che, al contrario dei paesi anglosassoni, non agevola la donazione, e una crisi economica che, inevitabilmente, riduce le capacità di donare. Secondo una ricerca Ipsos, presentata al Philanthropy day 2013, emerge che due italiani su tre non sanno neppure di cosa si tratti quando si parla di filantropia. Eppure la penisola vanta una lunga tradizione in materia e una potenza di fuoco da far invidia al ricco mondo del giving americano: quella delle fondazioni bancarie, forti di 40 miliardi di euro di patrimonio, che destinano un miliardo l’anno a cultura, arte, volontariato e ricerca.
Non profit sotto attacco, non è la notizia del giorno. Perché i titoli si concentrano sulle “scalate” dei fondi di investimento americani e inglesi sulle banche italiane, con Blackrock che diventa primo azionista in Intesa SanPaolo e secondo azionista Unicredit, e i fondi di Fintech e Btc Pactual prendono quota in Monte dei Paschi di Siena. Ma, mentre il pianeta del credito italiano è sotto assedio, «è la nostra ultima industria, e ora gli stranieri comprano a prezzi di saldo», mormora un operatore di Borsa, rischia di perdere i pezzi anche il terzo settore. Perché nei primi 25 anni di vita, le fondazioni italiane hanno garantito stabilità alle banche da esse partecipate, ma allo stesso tempo, grazie ai rendimenti dei titoli azionari, hanno potuto sostenere con erogazioni lo sviluppo del non profit in Italia.
Secondo Giuseppe Guzzetti, presidente di Cariplo e di Acri, l’associazione delle fondazioni italiane: «La costante attenzione sul ruolo delle Fondazioni come custodi di partecipazioni azionarie nelle banche ha lasciato spesso in secondo piano la riflessione attorno al loro ruolo e alla funzione sociale di “strutture filantropiche”. Ma questa è la loro missione esclusiva, come emerge dalla loro definitiva caratterizzazione sotto il profilo istituzionale e giuridico formulata con la riforma Ciampi del 1998/1991». Le fondazioni, nei loro primi anni vent’anni di vita, hanno contribuito a recuperare tesori artistici, sostenere l’housing sociale, per far fronte all’emergenza della casa, costruire campus universitari, enti di ricerca. Ma il tesoro (bancario) delle fondazioni ha sempre fatto gola a molti. E oggi nel nuovo risiko bancario potrebbe rimetterci il non profit italiano.
Angelo Miglietta, segretario di Fondazione Crt fino al 2012, aveva un sogno. Trasformare l’ente che ha gestito per più di un lustro, in fondazione di Torino. Diversificare gli investimenti, oltre al settore bancario, e sostenere lo sviluppo di una fondazione radicata nel territorio, riferimento per tutti quei progetti sociali che interessano la comunità. A questo proposito, Cariplo ha fatto delle fondazioni di comunità la spinta propulsiva per fare nascere nelle province lombare, quasi per gemmazione, altri enti non profit. Altre fondazioni, più restie a mollare la presa della banca di riferimento, come Mps e Carige, stanno pagando lo scotto di gestioni del credito non sempre cristalline. Per Stefano Zamagni, economista ed ex presidente dall’Agenzia del Terzo Settore, è indubbio che le fondazioni debbano fare un salto di qualità, «soprattutto in termini di governance». Perché in questi anni, «le fondazioni hanno corso sul filo dell’autoreferenzialità. E in qualche caso, da enti erogatori sono diventati anche promotori di progetti, sostituendosi alle associazioni e creando dei fenomeni di spiazzamento nel terzo settore». E non è certo un bene, «perché se si segue quel cammino, le fondazioni si trasformano in apparati burocratici statali».
In America il “giving” vale più di 200 miliardi l’anno. In media ogni famiglia dona circa 800 dollari. E non c’è azienda senza una fondazione di erogazione. In Italia, secondo l’ultimo censimento Istat, le fondazioni d’impresa sono 131 e gestiscono risorse per 150 milioni di euro. Poco, pochissimo. Soprattutto se le si confronta con le 2.278 fondazioni presenti sul territori che nascono dal basso, da individui o da associazioni. Il 50% di queste fondazioni è sorta nell’ultimo decennio. Di queste 856, ossia il 37,58% operano esclusivamente erogando contributi a terzi, mentre il resto affianca all’attività erogativa, anche la gestione diretta di progetti. Secondo Carola Carazzone, nuovo segretario generale di Assifero, l’associazione che riunisce le fondazioni civili, la priorità per il futuro sarà la lotta alle nuove e alla vecchie povertà. «Assifero, con i suoi 96 soci, rappresenta una realtà chiave per il “welfare 2.0”, in grado di mettere la persona al centro di una rete in cui fondazioni, enti pubblici, corporate, associazioni, volontariato e semplici cittadini devono lavorare insieme come partner strategici per costruire un welfare collaborativo e inclusivo, efficace e sostenibile per il nostro Paese».