Le imprese sono tenute a vigilare sul rispetto dell’ambiente e dei diritti umani nella loro filiera, al fine di prevenire eventuali violazioni e, se avvengono, intervenire per rimediare. È il grande cambiamento introdotto dalla direttiva europea sulla due diligence (CSDDD) che diventa legge dopo un iter travagliato
Dopo un iter lungo, contorto, in cui più volte sembrava sull’orlo del fallimento, il 5 luglio 2024 la corporate sustainability due diligence directive (meglio nota con l’acronimo CSDDD) è stata finalmente pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Era l’ultimo tassello che mancava affinché diventasse legge, cosa che accadrà venti giorni dopo la data di pubblicazione. A partire da questo momento, gli Stati membri dell’Unione europea hanno due anni di tempo per recepire le sue disposizioni nei propri ordinamenti. I tempi sono dunque maturi per chiedersi cosa cambierà, nel concreto, per le imprese e per noi cittadini.
Cosa prevede la CSDDD
Il punto di partenza della direttiva europea sulla due diligence è piuttosto chiaro. Soprattutto negli ultimi anni, c’è una forte pressione affinché le imprese garantiscano determinati standard in materia di rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. Tecnicamente, però, finora potevano essere ritenute responsabili soltanto delle attività che gestivano direttamente: il che inficiava parecchio l’efficacia delle politiche, dei codici di condotta e dei controlli che possono mettere in atto, soprattutto quando la loro filiera è lunga e globalizzata. La direttiva corregge questa stortura, imponendo loro di esercitare la cosiddetta due diligence (un’espressione che potrebbe essere tradotta con “dovuta vigilanza”) anche sui vari fornitori e subfornitori che compongono la loro catena del valore.
Gli obiettivi della direttiva europea sulla due diligence d’impresa
“Le imprese di grandi dimensioni devono assumersi le proprie responsabilità nella transizione verso un’economia più verde e maggiore giustizia sociale”, commenta Pierre-Yves Dermagne, vice primo ministro e ministro dell’Economia e del lavoro belga. In questo senso la CSDDD è una piccola rivoluzione: garantire il rispetto dei diritti umani e degli obblighi in materia ambientale non è più un gesto di responsabilità volontario né un auspicio astratto, bensì un obbligo in capo alle imprese.
Imprese che, appunto, sono ritenute responsabili non solo delle loro azioni dirette ma anche della condotta dei loro fornitori e subfornitori nel mondo. Il loro primo compito, dunque, è quello di vigilare. Nel momento in cui identificano violazioni, devono adottare le misure adeguate per “prevenire, attenuare, arrestare o minimizzare gli impatti negativi derivanti dalle loro attività, dalle attività delle loro filiazioni e dalle attività dei loro partner commerciali lungo la loro catena di attività”. Se queste violazioni generano dei danni, le imprese stesse sono tenute a risarcirli.
L’ambito di applicazione
I negoziati della CSDDD sono stati piuttosto farraginosi e hanno imposto di scendere a compromessi. Per riuscire a raggiungere – a marzo 2024 – un accordo politico tra gli Stati membri che sembrava tutt’altro che scontato, è stato necessario ammorbidire il testo iniziale, restringendo l’ambito di applicazione. La direttiva sulla due diligence, dunque, si applica soltanto alle circa 6mila imprese europee con più di mille dipendenti e un fatturato netto globale di almeno 450 milioni di euro (e non più, come era stato ipotizzato inizialmente, 500 dipendenti e 150 milioni di euro). Anche le imprese che hanno la loro sede legale al di fuori dell’Unione europea dovranno rispettare le sue disposizioni, se registrano nell’Ue un fatturato netto di almeno 450 milioni di euro. Resta escluso il settore finanziario.
Formalmente, dunque, le piccole e medie imprese non devono sottostare agli obblighi della direttiva e non possono essere sanzionate. Nei fatti, però, questo cambiamento le coinvolge in prima persona, perché le pmi altro non sono che i fornitori delle aziende più grandi. Aziende che inizieranno inevitabilmente a richiedere loro dati, certificazioni e garanzie sul rispetto dell’ambiente e dei diritti umani. Una volta messa in moto la macchina, dunque, non si può più tornare indietro.
Le tempistiche
Per poter dimostrare di aver vigilato sul rispetto dell’ambiente e dei diritti umani lungo la filiera, non basta acquisire un software, assumere una persona o ottenere una certificazione. Il percorso è molto più profondo e impone di ripensare radicalmente i propri processi. In certi casi, può essere utile anche cambiare fornitori, per prediligere quelli che offrono maggiori garanzie o che è più facile monitorare. Di conseguenza, le istituzioni dell’Unione hanno previsto una tabella di marcia scaglionata per l’applicazione della CSDDD:
- 3 anni dall’entrata in vigore della direttiva per le imprese con oltre 5.000 dipendenti e 1.500 milioni di euro di fatturato;
- 4 anni dall’entrata in vigore della direttiva per imprese con oltre 3.000 dipendenti e 900 milioni di euro di fatturato;
- 5 anni dall’entrata in vigore della direttiva per imprese con oltre 1.000 dipendenti e 450 milioni di euro di fatturato.
Le sanzioni per le imprese inadempienti
A differenza dei regolamenti che entrano in vigore in tutti gli Stati membri nella stessa forma, le direttive devono essere recepite negli ordinamenti dei singoli Stati. Anche per quanto riguarda le multe, dunque, l’Unione europea dà delle indicazioni generali: sarà poi ogni Paese a metterle in pratica restando entro determinati paletti. In particolare, le sanzioni per le aziende inadempienti dovranno essere “effettive, proporzionate e dissuasive” e tener conto di vari elementi:
- la natura, la gravità, la durata e gli impatti della violazione;
- gli investimenti fatti e il sostegno fornito alle piccole e medie imprese;
- l’eventuale collaborazione per affrontare gli impatti della violazione;
- le eventuali misure correttive adottate, così come altri fattori aggravanti o attenuanti.
Nel complesso, le sanzioni potranno arrivare addirittura al 5% del fatturato mondiale netto dell’esercizio precedente. In aggiunta, è prevista anche la responsabilità civile della società: ciò significa che, se la sua mancata prevenzione provocherà delle conseguenze negative su altri soggetti fisici o giuridici, le potrà essere richiesto di risarcirli.
La reazione da parte di Stati e imprese
Non è stato facile arrivare alla definitiva approvazione della CSDDD, in particolare perché durante il negoziato si è creato un fronte di Stati nettamente contrari, guidato dalla Germania a cui ben presto si è unita l’Italia. Il fattore che ha creato le maggiori preoccupazioni sta nell’aggravio di burocrazia a carico delle aziende; un’argomentazione che viene opposta anche ad altre iniziative dell’Unione. Tant’è che, pur di arrivare all’approvazione, è stato necessario ammorbidire la direttiva e restringere il suo perimetro di applicazione.
Le imprese, quelle direttamente coinvolte da queste novità, si sono spaccate a metà. In Italia, per esempio, abbiamo una Confindustria che per mesi si è schierata esplicitamente contro la direttiva, non tanto per i valori che esprime (che dichiara di condividere) quanto per un approccio “ideologico” che colpisce duramente soprattutto la manifattura, con un carico di costi e burocrazia definito come insopportabile. Dall’altro lato, abbiamo Ferrero che, nei mesi in cui lo scontro era più acceso, attraverso la Cocoa Coalition ha espresso parole di grande favore per un testo che “riflette un equilibrio attento e pragmatico” e armonizza gli standard in vigore nei vari territori. Si è venuta anche a creare una campagna italiana, promossa da una cordata di associazioni, che si è spesa strenuamente per l’introduzione della due diligence. Il nome è eloquente: Impresa 2030: diamoci una regolata.
Valentina Neri