Si può fare attivismo per l’ambiente e i diritti umani anche durante le assemblee degli azionisti delle grandi imprese: è questo lo spirito dell’azionariato critico
Come convincere le grandi aziende a lavorare di più, e meglio, sui fattori ambientali, sociali e di governance (ESG)? Da fuori può sembrare che le imprese, soprattutto le multinazionali dalle dimensioni colossali, siano onnipotenti o quasi. In realtà, di metodi per influenzare le loro scelte ce ne sono tanti: innanzitutto dall’esterno, premiando con i nostri acquisti i brand più virtuosi; ma anche dall’interno, con l’attivismo degli investitori. Quest’ultima strada si chiama azionariato critico: scopriamo insieme di cosa si tratta.
Gli obiettivi dell’azionariato critico
Le società quotate devono rispondere delle proprie scelte innanzitutto ai propri azionisti. Azionisti che hanno il diritto di partecipare alle assemblee annuali dei soci, porre domande al management e presentare (e votare) delle proposte, dette risoluzioni. In un’ottica di attivismo, dunque, possedere una quantità (anche molto piccola) di azioni può diventare un cavallo di Troia per poter pungolare la dirigenza sui temi ESG.
Qualche esempio? In materia di ambiente, si può chiedere conto degli obiettivi di decarbonizzazione, mettendoli a confronto con le traiettorie individuate dagli scienziati per contenere il riscaldamento globale entro la soglia del grado e mezzo. Per quanto riguarda la sfera sociale, c’è l’enorme tema della vigilanza sul rispetto dei diritti umani lungo tutta la filiera produttiva. Alla governance invece afferiscono le politiche sulle retribuzioni, sulla tutela dei dati, sulla trasparenza, sulla lotta alla corruzione e così via.
Questi sono soltanto alcuni esempi che fanno capire quanto le assemblee degli azionisti possano diventare, in un certo senso, il momento della verità in cui la dirigenza è tenuta, se non altro, a esprimersi su questioni che hanno un rilevante interesse pubblico.
L’azionariato critico dunque è una forma di attivismo, ma non bisogna immaginare che punti tutto su slogan fini a se stessi: ogni domanda posta in assemblea è l’esito di una meticolosa opera di ricerca e analisi. Nel migliore dei casi, questo lavoro prosegue durante l’anno: si parla di engagement quando l’azionista riesce ad avviare un dialogo con il management, attraverso scambi epistolari e incontri dedicati.
Azionariato critico e azionariato attivo: analogie e differenze
Spesso le espressioni azionariato critico e azionariato attivo sono usate come sinonimi e, in effetti, hanno ampi margini di sovrapposizione. In entrambi i casi, infatti, gli investitori avviano un dialogo con le aziende, arrivando poi a presentare domande o risoluzioni in assemblea. Ma ci sono alcune sottili differenze.
Di norma, si parla di azionariato critico quando l’investitore compra appositamente una quantità simbolica di azioni di aziende che ritiene particolarmente problematiche, solo ed esclusivamente per conquistarsi questo diritto: è ciò che fanno per esempio Shareaction e Follow This o, in Italia, Fondazione Finanza Etica e ReCommon.
Nel caso dell’azionariato attivo, invece, l’investitore ha fatto una selezione di titoli per comporre il proprio portafoglio, spesso applicando a monte uno screening ESG. Insomma, ha fiducia nelle aziende che ha scelto, ma riconosce i loro margini di miglioramento. E fa la sua parte per aiutarle a progredire.
L’azionariato critico in Italia
Nel nostro Paese, i primi episodi eclatanti di attivismo in questi contesti sono le incursioni del comico Beppe Grillo durante le assemblee di Stet e Telecom Italia. La prima organizzazione ad avere un approccio più di sistema è Legambiente che, negli anni Novanta, inizia ad acquistare azioni prima di Montedison e poi di Enel ed Eni. A raccogliere il testimone è Fondazione Finanza Etica, che fa capo al Gruppo Banca Etica e a sua volta è tra i fondatori della rete europea Shareholders for Change. Spesso lavora al fianco di ReCommon, un’altra organizzazione nata nel 2012 come evoluzione della Campagna per la riforma della Banca Mondiale.
Sarebbe un po’ riduttivo pretendere di elencare i successi dell’azionariato critico made in Italy, perché è più corretto immaginarlo come un lento lavoro di semina e di consapevolezza. I risultati arrivano con il passare degli anni e spesso non sono grandi rivoluzioni: più di frequente, determinate istanze (che inizialmente erano del tutto assenti) pian piano acquistano sempre più peso nei documenti ufficiali dell’azienda e nella sua comunicazione verso l’esterno. Volendo ricordare una grande vittoria, si può citare il “no” al progetto HidroAysén, controllato da Enel, che avrebbe comportato la costruzione di cinque grandi dighe nei territori incontaminati della Patagonia cilena. E che è stato definitivamente archiviato dopo anni di proteste e di attivismo, tanto in Cile quanto in Italia durante le assemblee di Eni.
Le assemblee a porte chiuse: un ostacolo per gli azionisti critici
Mentre scriviamo, però, l’azionariato critico in Italia si trova di fronte a un bivio. Nel 2020, quando è scoppiata l’emergenza sanitaria, anche le assemblee degli azionisti sono state spostate online per limitare i contagi. Una modalità che, tuttavia, è stata prorogata anche ben oltre i mesi più duri della pandemia, prima con il decreto legge Milleproroghe e poi con il disegno di legge n. 674 sulla “competitività dei capitali”.
Anche nel 2024, dunque, le imprese italiane si sono potute avvalere della possibilità di svolgere le assemblee a porte chiuse, online, tramite il cosiddetto rappresentante designato. Gli azionisti critici possono ancora porre domande, ma soltanto per iscritto e prima dell’assemblea stessa, ricevendo sempre per iscritto le risposte. Inutile dire come l’efficacia di questa forma di attivismo ne esca pesantemente compromessa; motivo per cui le organizzazioni chiedono a gran voce al governo guidato da Giorgia Meloni di tornare sui suoi passi.
Valentina Neri