La Cop29 di Baku prende il via in uno scenario che vede un forte ritardo nel raggiungimento degli obiettivi per il clima
Ha preso il via la Cop29, la ventinovesima Conferenza delle parti sul clima, in programma dall’11 al 22 novembre a Baku, la capitale dell’Azerbaigian. L’obiettivo non è tanto quello di stabilire il traguardo a cui tendere, perché è già chiaro: le principali autorità scientifiche mondiali da tempo invitano a fare tutto il possibile per mantenere il riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, rispettando così l’obiettivo più ambizioso previsto dall’Accordo di Parigi sul clima. I lavori della Cop29, piuttosto, si focalizzeranno sulla strada da percorrere per centrare questo obiettivo. Ragionando dunque, prima di tutto, sui finanziamenti. Ma quanto è urgente agire? A dare una risposta sono tre corposi report pubblicati poco prima di questo importante appuntamento e firmati rispettivamente dall’Organizzazione meteorologica mondiale (World Meteorological Organization, WMO) e dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UN Environment Programme, UNEP).
La concentrazione di CO2 in atmosfera tocca un nuovo record
Sappiamo che le attività umane, in particolar modo la combustione di gas, carbone e petrolio, rilasciano gas serra, il più abbondante dei quali è l’anidride carbonica (CO2). E sappiamo che gli oceani assorbono circa un quarto di questa CO2 e gli ecosistemi terrestri poco meno del 30%: tutto il resto si accumula nell’atmosfera, trattenendo il calore assorbito dal sole (si parla appunto di effetto serra). Da qui l’equazione: all’aumentare delle emissioni, aumenta anche la concentrazione di CO2 e dunque si intensifica il riscaldamento globale.
Ebbene, l’Organizzazione meteorologica mondiale ha iniziato nel 2004 a pubblicare il suo Greenhouse Gas Bulletin. All’epoca, la concentrazione di CO2 in atmosfera ammontava a 377,1 parti per milione (ppm). Oggi, vent’anni dopo, ha sfondato la soglia delle 420 parti per milione, con un vertiginoso aumento del 151% rispetto ai livelli preindustriali. Non va troppo meglio per gli altri gas serra. La concentrazione di metano è pari a 1.934 ppm (+265% rispetto ai livelli perindustriali) e quella di monossido di azoto (N₂O) è pari a 336,9 ppm (+125%). La CO2, in particolare, persiste in atmosfera per decenni: anche se azzerassimo le emissioni in questo preciso istante, dunque, dovremmo attendere ancora diversi anni per veder rallentare, o addirittura, invertire il corso del riscaldamento globale.
“Un altro anno. Un altro record. Questo dovrebbe far scattare un campanello d’allarme tra i decisori politici. Siamo chiaramente fuori strada per raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi di limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C, puntando a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Questi non sono solo numeri. Ogni parte per milione e ogni frazione di grado di aumento della temperatura hanno un impatto reale sulle nostre vite e sul nostro pianeta”,
ha affermato la segretaria generale dell’Organizzazione meteorologica mondiale, Celeste Saulo.
Il riscaldamento globale rischia di sfondare la soglia dei 3 gradi
Firmando l’Accordo di Parigi, i governi di tutto il mondo si sono impegnati a mettere a punto i propri piani di riduzione delle emissioni (chiamati NDC, dall’inglese nationally determined contributions). Ma questi dati dimostrano come, evidentemente, qualcosa non abbia funzionato. Lo testimonia anche l’Emissions Gap Report dell’UNEP, il Programma per l’ambiente dell’Onu. Rispettando per filo e per segno tutte le promesse di riduzione delle emissioni, la temperatura media globale crescerà di 2,6 gradi centigradi entro la fine del secolo. Proseguendo sulla strada intrapresa finora, si rischia di arrivare addirittura a 3,1 gradi in più. Con conseguenze inimmaginabili.
“Abbiamo bisogno di una mobilitazione globale che assuma una dimensione e un ritmo mai visti finora”, ribadisce Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’UNEP. Per la precisione, per mantenere il riscaldamento entro i 2 gradi centigradi le emissioni devono calare del 28% entro il 2030 e del 37% entro il 2035, rispetto ai livelli del 2019. Per centrare il vero obiettivo, cioè gli 1,5 gradi, il calo dev’essere del 42% entro il 2030 e del 57% entro il 2035. Questi sono dati collettivi, ma va da sé che le nazioni industrializzate abbiano maggiori responsabilità e quindi siano tenute a guidare questa transizione. I membri del G20, ad esclusione dell’Unione Africana, nel 2023 hanno emesso il 77% dei gas serra. Eppure, finora non hanno nemmeno rispettato le loro (insufficienti) NDC. La tabella di marcia prevede di aggiornare tali promesse all’inizio del 2025, in vista della Cop30 che si terrà in Brasile.
Gli investimenti nell’adattamento sono ancora insufficienti
Ridurre le emissioni corrisponde al primo pilastro dell’azione per il clima, la mitigazione. Parallelamente bisogna lavorare sull’adattamento, cioè su tutte le misure che proteggono il territorio e la popolazione dai danni. Ne tocchiamo con mano l’importanza quando capitano i grandi disastri, come l’alluvione di Valencia. La presenza di sistemi di allerta preventivi, di infrastrutture per il drenaggio dell’acqua piovana e barriere fisse e mobili, per esempio, può fare la differenza tra un violento temporale e una catastrofe.
Ci sono interi settori economici che giocano il proprio futuro sulla capacità di adattamento: basti pensare all’agricoltura. Lavorare sull’adattamento in questo contesto significa, per esempio, ripristinare la fauna naturale per costruire sistemi agroforestali più resilienti, selezionare opportunamente le colture, sviluppare sistemi di irrigazione intelligenti in zone ad alto rischio di siccità.
Sono tutti interventi che diventano possibili solo a fronte di investimenti economici importanti. Ma, anche su questo fronte, l’UNEP fa sapere che siamo molto in ritardo. Nel 2022 i finanziamenti pubblici per l’adattamento stanziati dalle nazioni industrializzate a favore di quelle in via di sviluppo sono arrivati a 28 miliardi di dollari. È un balzo in avanti rispetto ai 21 miliardi del 2021, ma le reali necessità sono molto più ampie. Secondo l’Adaptation Gap Report, manca all’appello una cifra compresa tra i 187 e i 359 miliardi di dollari all’anno.
Valentina Neri