Lo sostiene lo scienziato Roberto Defez nel suo ultimo libro nel quale spiega cosa dovrebbe fare la ricerca italiana per allinearsi al livello di quella degli altri paesi europei
Tutto è nato da una conferenza Ted, organizzata lo scorso anno a Roma dal Cnr: per cui Roberto Defez lavora, in qualità di direttore del laboratorio di biotecnologie microbiche all’Istituto di bioscienze e biorisorse di Napoli. Ma quello che ne è venuto fuori, è un messaggio che meritava di andare ben oltre la sala della conferenza. L’idea di redigere «Scoperta – Come la ricerca scientifica può aiutare l’Italia», pubblicato da Codice Edizioni, è nata così nella testa dello scienziato partenopeo. Un libro, scritto con una prosa scorrevole e con una piacevole alternanza di riferimenti storici e ricostruzioni scientifiche, che va oltre l’istantanea dello stato di salute della ricerca italiana e fornisce anche una possibile soluzione per uscire dal guado. Un manuale non (solo) per scienziati, ma per tutti coloro che hanno tra le mani la possibilità di guidare la risalita del Paese, che non può prescindere dall’applicazione del metodo scientifico.
DALLA DIAGNOSI ALLA POSSIBILE TERAPIA – Secondo Defez la ricerca italiana «è un malato cronico, che però è ancora in grado di tirare fuori dei risultati eccezionali». Lo scenario del sostegno economico, tecnologico e strutturale dato alla ricerca italiana è desolante, se paragonato a quello internazionale. Con proporzioni diverse, in Europa quasi tutti investono più di noi: Gran Bretagna, Francia, Germania, Svizzera, Spagna, Paesi scandinavi. Ma nel libro lo scienziato spiega come in realtà l’investimento vero nel nostro Paese sia ancora più basso, perché i fondi vengono dati con modalità che prescindono dalla qualità delle ricerche e dai sistemi di valutazione che la scienza s’è data. «Dobbiamo decidere cosa fare da grandi, perché rischiamo di diventare un Paese per vecchi. E una possibile risposta è data dalla possibilità di tornare a studiare la realtà in modo controllato e riproducibile. Quello che si fa col metodo scientifico, nella pratica, che permette di trovare forme di dialogo non preconcetto nella società».
QUANDO È INIZIATO QUESTO DECLINO? – L’ultimo treno è passato quando non si è più seguito il percorso inaugurato da Antonio Ruberti al Ministero dell’Università e della Ricerca, ormai quasi trent’anni fa. È stata quella l’unica fase in cui il trend negli investimenti era crescente, con una vera idea di sviluppo scientifico. Ma un’altra data cruciale è quella del 1961. «Eravamo nella fase finale del piano Marshall, con le fondazioni statunitensi che cercavano di investire in ricerca nel nostro Paese – prosegue Defez -. In quel momento l’Italia poteva diventare una fucina scientifica di altissimo livello, sotto l’egida di Adriano Buzzati Traverso: quello che definisco il più grande manager della ricerca italiano. Fu lui a procurarsi una cifra astronomica dalla Fondazione Rockfeller, senza però poi trovare seguito tra gli industriali italiani. I soldi, di conseguenza, finirono nell’arco di 4-5 anni. Fu in quel momento che perdemmo una grande opportunità per spiccare il volo». Nel libro si afferma che i fondi che l’Italia destina alla ricerca sono sì pochi, ma pure spesi male: per quale ragione? «Perché, pur avendo pochi soldi in tasca, assistiamo a uno spreco di danaro pubblico notevole. Devono cambiare le regole con cui vengono ripartiti i finanziamenti, soltanto dopo si possono chiedere maggiori investimenti. Se i soldi sono limitati, non possono essere dati per amicizia, parentela, cordata o affinità politica. Il discorso riguarda gli investimenti a tutti i livelli: da quello nazionale in giù. L’Italia oggi è un Paese fallito, sul piano della ricerca. Per risalire la china, occorre prima cambiare il meccanismo di ripartizione dei fondi. E poi, eventualmente, chiedere allo Stato di essere di manica più larga».
GLI ITALIANI NEI SANNO POCO DI SCIENZA – Se non si vuole guardare il dito al posto della luna, è corretto precisare che la tendenza a cercare soluzioni semplici per questioni complesse non nasce assieme agli italiani, ma si sviluppa in un contesto che vede poco valorizzata la cultura scientifica. A proposito: a che età dovremmo iniziare a coltivarla tra i nostri figli? «Le migliori domande le ho avute in una scuola materna: ciò vuol dire che non è necessario attendere un’età di soglia per iniziare a parlare di scienza ai bambini. Dobbiamo capire che non possiamo essere credibili, se non c’è un’interfaccia nelle nuove generazioni. Ma invece continuiamo a comportarci in maniera opposta, facendo quasi l’elemosina ai grandi musei scientifici che dovrebbero svolgere questo ruolo. In questo modo è come se stessimo avvelenando i pozzi. La conseguenza è inevitabile: i ragazzi che vogliono avvicinarsi a questo mondo non possono far altro che andare via dall’Italia, per inseguire i propri sogni. Non stiamo reinvestendo sul futuro, scegliendo lavori a basso contenuto tecnologico che ci rendono però meno competitivi sulla scena internazionale».
LE RESPONSABILITÀ DEGLI SCIENZIATI – Quello che colpisce del libro è l’atto di accusa nei confronti degli scienziati: perché è anche colpa loro se abbiamo dato credito a Di Bella, a Vannoni e a chi raccontava di poter prevedere i terremoti è anche colpa dei camici bianchi? «Perché hanno reticenza a intervenire, a buttarsi nell’agone e a difendere di conseguenza la loro dignità – va avanti Defez -. La questione va oltre il dilemma tra chi è pro o contro i vaccini o gli organismi geneticamente modificati. Ogni qual volta si manifesta una situazione di questo tipo, gli scienziati hanno il dovere di fare chiarezza nell’interesse della società. Quando si verifica una tragedia come Stamina, è tutta la comunità scientifica a dover insorgere. I media devono avere gli scienziati come riferimento per occuparsi di vicende scientifiche, non i politici o i magistrati. Sono i fatti documentati a dover occupare la scena, non le invenzioni di chi spesso ha interessi personali nella vicenda in cui risulta coinvolto». Esattamente come Vannoni o come Wakefield, il medico che per primo ipotizzò il legame tra il vaccino trivalente e l’autismo: salvo poi essere radiato dall’ordine dei medici inglese. Per tornare protagonisti del dibattito pubblico e aiutare la ricerca italiana a rialzare la testa, gli scienziati hanno un’opportunità: quella di creare gruppo rappresentativo di tutte le discipline, che si assuma la responsabilità di parlare a nome di tutti gli scienziati italiani, utilizzando i metodi propri dei ricercatori: producendo documentazione rigorosa a sostegno delle loro tesi. «Può sembrare un’idea ingenua, ma non lo è, perché organizzazioni simili esistono all’estero e funzionano – chiosa lo scienziato -. Si pensi alla Royal Society, l’antica e sempre moderna accademia inglese. La sua voce è chiara ed è ascoltata in Gran Bretagna. In Italia non esistono realtà analoghe».
Twitter @fabioditodaro