Con il riscaldamento globale, il permafrost dell’Alaska si degrada rilasciando anidride carbonica, metano e anche mercurio. Un fenomeno, quest’ultimo, che è molto più ingente rispetto al previsto e minaccia la salute dei popoli indigeni
Reso immortale dai romanzi di Jack London, lo Yukon è quel fiume che scorre tra Canada e Alaska, teatro della corsa all’oro alla fine del XIX secolo. Guardando le immagini di questo corso d’acqua remoto e selvaggio, è difficile immaginare che celi una bomba a orologeria pronta a esplodere, minacciando il clima della Terra e la salute delle popolazioni di nativi. Eppure, è così. Perché, con l’aumento delle temperature, il permafrost dell’Alaska si sta degradando. E questo potrebbe rivelarsi un problema ben più grave rispetto a quanto ipotizzavano gli scienziati fino a poco tempo fa. Ad accendere i riflettori su questa potenziale emergenza sanitaria e ambientale è uno studio pubblicato dalla rivista Environmental Research Letters.
Cos’è il permafrost e perché si sta degradando
Sconosciuto o quasi per chi vive alle nostre latitudini, il permafrost è un habitat che copre una superficie totale di 22,8 milioni di chilometri quadrati, soprattutto tra Groenlandia, Russia, Cina ed Europa orientale, ma anche sulle Alpi, nell’Himalaya, in Patagonia e nelle cime della Nuova Zelanda. Come suggerisce il nome, è uno strato permanentemente gelato composto da ghiaccio, suolo e detriti, con uno spessore che varia da uno a più di mille metri.
Con il riscaldamento globale, è inevitabile che il ghiaccio fonda e che il permafrost si degradi, innescando frane e colate di detriti. E questo è soltanto uno dei pericoli, il più immediato e visibile. Gli scienziati stimano infatti che, a livello globale, il permafrost abbia intrappolato ben 1.400 gigatonnellate di anidride carbonica; se venisse liberata in atmosfera anche solo in parte, andrebbe ulteriormente a peggiorare l’effetto serra innescando un circolo vizioso. Alcuni studi condotti in Siberia, inoltre, ipotizzano che – oltre a CO2 e metano – siano rimasti congelati anche virus risalenti a migliaia di anni fa. Le conseguenze, ad oggi, sono impossibili da immaginare.
Perché il permafrost libera mercurio e quali rischi ne derivano
Gli scienziati già da tempo ipotizzavano che il permafrost, degradandosi, rilasciasse anche mercurio. Ma non conoscevano con precisione le quantità. Questo nuovo studio, condotto dagli esperti della University of Southern California, rivela che il problema è molto più ingente rispetto a quanto si immaginasse. E apre una serie di interrogativi per il futuro.
Le conseguenze del mercurio per la salute
“Una minaccia persistente per l’ambiente e la nostra salute”: così l’Agenzia europea per l’ambiente descrive il mercurio. Questo metallo pesante, che ha la peculiarità di essere liquido a temperatura ambiente, è presente naturalmente nell’ambiente ma, nella stragrande maggioranza dei casi, è contenuto in altri minerali e quindi non comporta rischi. Il problema, ancora una volta, sta nell’uomo che negli ultimi secoli ha fatto uso del mercurio per molteplici scopi. Viene spontaneo pensare ai termometri, ormai proibiti da anni nell’Unione europea alla pari di molte applicazioni in ambito industriale. Altrove, dove le regolamentazioni ambientali sono meno stringenti, il mercurio si usa ancora – legalmente e illegalmente – nelle fabbriche e per le piccole miniere d’oro informali. Viene inoltre rilasciato (e questo accade anche nel nostro Continente) durante la combustione di carbone, lignite, torba e legno.
Il problema è che il mercurio è altamente tossico. E, una volta disperso nell’ambiente, contamina l’acqua e i sedimenti, viene assorbito dagli animali ed entra così nella nostra catena alimentare. È questo il motivo per cui i medici consigliano alle donne in gravidanza di limitare il consumo di frutti di mare (che fungono da filtratori e dunque trattengono i metalli pesanti) e dei grandi predatori che se ne nutrono, come il tonno e il pesce spada. Un feto che assorbe quantità eccessive di mercurio attraverso la placenta, infatti, rischia danni alla memoria, al linguaggio, alla capacità di attenzione e ad altre funzioni cognitive.
Cosa sappiamo del mercurio nel fiume Yukon
Collassando, il permafrost rilascia sulle sponde del fiume Yukon quantità di mercurio molto più consistenti rispetto a quanto gli scienziati stimavano in precedenza. Si parlava infatti di un volume compreso tra i 40 e i 150 chili per chilometro quadrato, ma questa nuova analisi – confermata attraverso i campioni raccolti dal suolo – evidenzia un dato minimo molto più alto: si va dagli 86 ai 131 chili per chilometro quadrato. Né gli oceani, né l’atmosfera né gli altri tipi di suolo ne contengono così tanto.
Questo è un punto di partenza per ulteriori analisi: bisognerà capire se il mercurio diventa metilmecurio, la versione tossica della sostanza che provoca danni cerebrali, e se è presente nei pesci che i popoli indigeni consumano. Un timore, quest’ultimo, già suffragato da vari studi e dall’esperienza diretta delle persone. Queste comunità vivono in simbiosi con la natura, una natura che fornisce loro il cibo, il legname con cui costruire e scaldarsi, l’acqua, i mezzi di sostentamento. Una natura che è anche parte integrante della loro identità e delle tradizioni che portano avanti da millenni. Per loro, i cambiamenti climatici sono un qualcosa che si tocca con mano giorno dopo giorno: nell’Artico il riscaldamento globale corre a un ritmo che è addirittura quattro volte superiore rispetto al resto del Pianeta.
Valentina Neri