Per le loro dimensioni, le particelle di microplastica non vengono filtrate dai depuratori delle acque e finiscono nei fiumi e negli oceani
Da tempo mette in guardia sul pesante impatto ambientale che le microsfere di plastica contenute nei prodotti per l’igiene personale hanno sui fiumi e sugli oceani del pianeta e sulle specie animali che li abitano. A causa delle loro piccole dimensioni, queste particelle non vengono filtrate dai sistemi di depurazione delle acque e pertanto finiscono direttamente nei fiumi e negli oceani e risalgono la catena alimentare, contaminando gli ecosistemi naturali.
Ora Greenpeace East Asia ha deciso di valutare i 30 principali marchi del settore dei cosmetici e dell’igiene personale in una classifica rilevando che sono solo quattro le aziende che i stanno impegnando maggiormente per eliminare le microsfere dai propri prodotti. Queste sono: Beiersdorf e Henkel (Germania), Colgate-Palmolive e L Brands (Stati Uniti). Altre aziende hanno mostrato uno scarso impegno e pertanto occupano gli ultimi posti in classifica.
Preoccupante anche il fatto che nessuno dei 30 marchi internazionali presi in esame ha soddisfatto tutti i criteri di valutazione necessari per garantire la protezione dei mari dall’inquinamento da microplastica. «Questa classifica prova che l’intero settore sta facendo molto poco per risolvere questo grave problema ambientale», dichiara Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia. «Le aziende sostengono di riuscire a gestire il problema ambientale delle microsfere, ma questo è falso, come dimostra il rilascio quotidiano negli oceani di miliardi di microsfere contenute nei prodotti per la cura e l’igiene personale».
Ma qualcosa si muove: alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno già vietato l’utilizzo delle microsfere nei prodotti per l’igiene personale a partire dal 2017. Altrove, come nel Regno Unito, Australia e Canada sono in discussione proposte normative per proibirne l’uso. In Italia, invece, grazie anche all’impegno dell’Associazione Marevivo, solo poche settimane fa è stata presentata una proposta di legge per vietare l’utilizzo di queste microsfere in cosmetici e prodotti per l’igiene personale.
E ad infettare le acque ci si mettono pure una serie di nuovi microinquinanti, come i geni di resistenza agli antibiotici, che gli impianti di depurazione non riescono a rimuovere in quanto non dispongono di alcun trattamento specifico. E’ la denuncia dell’Istituto per lo studio degli ecosistemi del Consiglio nazionale delle ricerche (Ise-Cnr) di Verbania Pallanza che ha intrapreso una ricerca al fine di sviluppare sistemi di trattamento efficienti. I risultati sono pubblicati sulla rivista Water Research. «Abbiamo dimostrato come all’interno di impianti di depurazione anche molto diversi ci sia una presenza concomitante di geni di resistenza ai metalli pesanti e ad antibiotici di uso comune in medicina umana e veterinaria. Questo potrebbe determinare la diffusione dell’antibiotico resistenza in ambiente attraverso i reflui trattati, a seguito di una pressione selettiva esercitata dai metalli stessi nei sistemi di trattamento, che puo’ portare ad una co-selezione di geni di resistenza agli antibiotici», spiega Gianluca Corno, coordinatore della ricerca e ricercatore Ise-Cnr. L’immissione in ambiente di questi geni e batteri resistenti agli antibiotici non viene considerata dalla legislazione attuale. Anche se molte nazioni UE stanno lavorando alla definizione dei limiti.