Wise Society : Droghe e farmaci avvelenano anche gli ecosistemi e gli animali

Droghe e farmaci avvelenano anche gli ecosistemi e gli animali

di Valentina Neri
4 Luglio 2024

Foreste distrutte per lasciare spazio alle coltivazioni, pesci e uccelli intossicati fino a diventare tossicodipendenti o cambiare comportamento: l’impatto di droghe e farmaci sull’ecosistema passa spesso sotto silenzio, ma è vasto e trasversale

Sembra quasi superfluo affermare che il mercato delle droghe illegali abbia un impatto sociale e sanitario drammatico. E che, con le dovute distinzioni, anche l’uso dei farmaci vada tenuto d’occhio, soprattutto se rischia di sfociare in abuso. Ma non siamo solo noi, come società, a pagarne le conseguenze. Droghe e farmaci avvelenano anche l’ambiente e gli animali. Decine di studi scientifici ci rivelano per esempio che le coltivazioni di marijuana consumano enormi quantità di acqua e hanno un enorme impatto sul clima, mentre quelle di cocaina provocano la distruzione di ettari ed ettari di foreste. Nei nostri fiumi, intanto, le trote diventano dipendenti da metanfetamine e i pesci persici restano intontiti dagli psicofarmaci.

Flacone aperto con pillole e farmaci

Foto Shutterstock

L’impatto ambientale della produzione di droghe

I dati che abbiamo a disposizione sulla produzione di sostanze stupefacenti nel mondo sono, inevitabilmente, parziali. Sappiamo però che la più popolare (ad eccezione di alcool e tabacco) è la marijuana, ormai legalizzata da diversi Stati anche per uso ricreativo.
La pianta però è molto delicata, soprattutto nella fase di fioritura. Coltivarla all’interno di serre, con condizioni di luce, temperatura e ventilazione controllate, è dunque il metodo che garantisce i risultati migliori; ma è anche enormemente dispendioso in termini energetici.

C’è uno studio, seppure un po’ datato (risale al 2012), che ipotizza che queste serre da sole rappresentino l’1% del consumo di energia elettrica negli Stati Uniti. Un’energia elettrica che è ancora prodotta, in gran parte, con i combustibili fossili.

Un report dell’Università della California – Davis sostiene che ogni anno la produzione statunitense di cannabis al chiuso emetta circa 15 milioni di tonnellate di CO2, all’incirca come 3 milioni di automobili in circolazione per un anno. Lo stesso studio ricorda come una singola pianta di marijuana abbia bisogno di 30-40 litri di acqua al giorno. E lo Stato dove se ne coltiva di più è la California, soggetta a gravi ondate di siccità che possono durare anche anni interi.

Distruggere le foreste per coltivare cocaina 

Nei Paesi latinoamericani la protagonista è la cocaina. La coltivazione di coca ha radici antichissime, richiede un clima umido-tropicale e, soprattutto, richiede spazio. Nel Ventesimo secolo, circa 7 milioni di ettari di foresta amazzonica peruviana sono stati deforestati e rimpiazzati da piantagioni di coca. È un’area grande all’incirca come l’Irlanda. Oggi non va troppo meglio: si stima che tra il 2001 e il 2013 siano stati distrutti oltre 290mila ettari di foresta a questo scopo. Preoccupa, in particolare, che per evitare controlli si scelgano territori distanti dalle aree urbane, territori che – anche per questo – sono (o meglio erano) incontaminati, ricchissimi di biodiversità, capaci di sequestrare enormi quantità di CO2.

Infiorescenza di marijuana

Foto Shutterstock

Gli animali intossicati da droghe e farmaci

Gli animali, poi, entrano in contatto con i residui di farmaci e droghe rimasti negli ecosistemi. Cosa che modifica la loro fisiologia e il loro comportamento, con esiti talvolta imprevedibili. “I principi attivi dei farmaci si trovano nei corsi d’acqua di tutto il mondo, anche negli organismi che potremmo mangiare”, conferma al quotidiano britannico Guardian Michael Bertram, docente presso l’università svedese di Scienze agricole e autore di uno studio sul tema.

Questa dispersione può accadere già in fase di produzione, perché mancano sistemi di depurazione adeguati, oppure a seguito dell’assunzione, perché una piccola quantità di principio attivo viene espulsa con le feci. Così, nei nostri ecosistemi si trovano tracce di caffeina, ansiolitici, antipsicotici, antidepressivi, cocaina, metanfetamina. E l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.

Lo testimoniano i dati: un recente studio ha rilevato le concentrazioni di 61 differenti farmaci in 1.052 località sui fiumi. Nel 43,5% dei siti, erano superiori ai livelli ritenuti sicuri dal punto di vista ecologico. D’altra parte, droghe e farmaci sono espressamente formulati per essere il più possibile efficaci già a bassi dosaggi. Man mano che le analisi scientifiche danno conferma di questo fenomeno, è chiaro anche come rappresenti una minaccia per la biodiversità.

Animali tossicodipendenti, apatici o ansiosi

Ne sanno qualcosa in India dove, tra il 1992 e il 2007, la popolazione di avvoltoi è crollata addirittura del 97% a causa del diclofenac, un farmaco veterinario somministrato di routine al bestiame. A riprova di quanto in natura sia tutto collegato, in seguito si è registrata un’impennata dei casi di rabbia perché i cani hanno cominciato a nutrirsi delle carcasse, in assenza di avvoltoi.

Molto più spesso gli animali sopravvivono, ma non senza conseguenze. È il caso degli storni femmine che, dopo aver assunto antidepressivi insieme all’acqua dei fiumi, attraggono meno i maschi. Sono sempre gli antidepressivi a far sì che i pesci persici non percepiscano più la paura dei predatori, mettendosi così più facilmente a rischio. Mentre le tracce di anfetamine nelle acque innescano una dipendenza nelle trote e quelle di pillola anticoncezionale fanno sviluppare caratteri femminili ai pesci maschi, a tal punto da compromettere la riproduzione. Al Pimephales promelas, un piccolo pesce d’acqua dolce, bastano minuscole dosi di caffeina per restare ansioso a lungo.

Di esempi ne esistono a decine e, con ogni probabilità, ne emergeranno altri. La lezione da trarne, però, sembra chiara. Come chiarisce un altro co-autore dello studio, Gorka Orive,

“i medicinali devono essere progettati non solo per essere efficaci e sicuri, ma anche per contenere i rischi potenziali per la salute umana e della fauna selvatica quando sono presenti nell’ambiente”.

Valentina Neri

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