Database cancellati, report nascosti, fondi per la ricerca sforbiciati: l’amministrazione Trump trasforma la crisi climatica in terreno di scontro politico.
“Tutti i documenti sono stati distrutti o falsificati, tutti i libri riscritti, tutti i quadri dipinti da capo, tutte le statue, le strade e gli edifici cambiati di nome, tutte le date alterate, e questo processo è ancora in corso, giorno dopo giorno, minuto dopo minuto”. È un estratto di “1984”, il capolavoro di George Orwell che rappresenta ormai la distopia per antonomasia. Le parole sono forti, perché la finzione del romanzo lo permette, ma – con le cautele e i distinguo del caso – ci aiutano a comprendere cosa succede quando anche l’arte, la scienza e la storia finiscono al centro di scontri di potere. Per gli Stati Uniti di Donald Trump il clima è un tema non più scientifico, ma politico. Lo dimostra la scelta di sacrificare, cancellare o ridimensionare i principali programmi scientifici sui cambiamenti climatici. Proprio mentre il riscaldamento globale si avvicina pericolosamente alla soglia di sicurezza individuata dagli esperti e le sue manifestazioni diventano sempre più estreme.

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Addio al monitoraggio dei disastri naturali
Tra queste manifestazioni estreme ci sono uragani, incendi, ondate di calore. A partire dagli anni Ottanta, la National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) censisce in un apposito database quelle che colpiscono gli Stati Uniti provocando danni superiori al miliardo di dollari ciascuna. Ma sarebbe più opportuno parlare al passato, visto che il Billion-Dollar Weather and Climate Disasters non verrà più aggiornato. Il comunicato che annuncia questo cambiamento parla di “un’evoluzione nelle priorità”.
In questo spazio ufficiale della Noaa, dunque, non ci sarà più traccia – tra gli altri – degli incendi che hanno sfigurato la California nelle prime settimane del 2025, senza risparmiare i lussuosi quartieri di Los Angeles e le spiagge di Malibu. A partire da quest’anno, il massimo che si può fare è consultare i rapporti passati che mostrano una netta intensificazione degli eventi meteo estremi: negli anni Novanta si susseguivano a una media di 5,7 all’anno, nell’ultimo quinquennio sono stati 23 all’anno.
Viene meno, così, una fonte preziosa per l’opinione pubblica, ma anche per altre agenzie (nazionali e sovranazionali) e istituzioni accademiche che non hanno la possibilità di replicare lo stesso lavoro, per ragioni di proprietà intellettuale dei dati. Gli esperti interpellati dal New York Times sottolineano come la scomparsa di questo database possa rivelarsi un boomerang anche in termini prettamente economici. D’ora in poi, infatti, su cosa si baseranno le compagnie assicurative per definire il livello di rischio di una determinata area geografica? E le amministrazioni locali per stanziare gli investimenti in infrastrutture?

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Scompaiono i National Climate Assessment degli scorsi anni
Se i database dei disastri meteo degli scorsi anni sono ancora consultabili, non si può dire lo stesso per i National Climate Assessment della Nasa. A partire dal 2000, infatti, la celeberrima agenzia spaziale a stelle e strisce pubblicava regolarmente questi report sulle conseguenze dei cambiamenti climatici sul territorio statunitense e sulle possibili contromisure che la comunità locale può mettere in atto. Durante l’estate, l’amministrazione Trump ha chiuso e reso inaccessibile la pagina web dedicata. Inizialmente una portavoce aveva rassicurato giornalisti e cittadini, chiarendo che tutti i report precedenti sarebbero stati comunque disponibili nel sito della Nasa, salvo poi smentirsi qualche giorno dopo.
Questi studi continueranno a esistere, perché la legge impone di redigerli e di presentarli al Congresso. Quello che cambia è innanzitutto la loro diffusione, perché non saranno più disponibili in un unico sito web, facile da trovare e da consultare. I lavori per la prossima edizione, la cui pubblicazione è prevista nel 2028, dovranno poi fare i conti con i pesanti tagli al budget decretati sempre dall’amministrazione Trump.
I pesanti tagli alla ricerca scientifica voluti dall’amministrazione Trump
Vediamoli dunque più da vicino, questi tagli alla ricerca. A metà luglio l’Agenzia per la protezione ambientale (Epa) ha annunciato la chiusura della propria divisione scientifica, chiamata Office of Research and Development. L’Epa ha già visto calare di molto il proprio personale: a gennaio del 2025 aveva oltre 16mila dipendenti ma, tra dimissioni e pensionamenti volontari, poco più di sei mesi dopo non arrivava a 12.500. Eliminando la propria divisione scientifica risparmierà quasi 750 milioni di dollari.
L’Office for Research and Development conta sei programmi principali: oltre al clima si occupa anche di salute pubblica, sostanze chimiche, qualità dell’aria e dell’acqua e non solo. A questo ufficio si deve, ad esempio, la ricerca sui Pfas, gli “inquinanti eterni”. Questi tagli “non fanno risparmiare soldi dei contribuenti: semplicemente, spostano i costi sugli ospedali, sulle famiglie e sulle comunità lasciate a sostenere le conseguenze sanitarie ed economiche dovute all’aumento dell’inquinamento e all’indebolimento della sorveglianza”, commenta l’ex-dirigente dell’Epa Jennifer Orme-Zavaleta.
E non è tutto. Anche la National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) quest’anno costerà all’amministrazione quasi 100 milioni di dollari in meno rispetto al budget stanziato dal Congresso. Nel 2024 la Noaa aveva investito 219 milioni di euro nella ricerca sul clima; quest’anno si limiterà a 165 milioni, il 25% in meno. Ma l’intento della Casa Bianca è quello di sacrificare in toto il ramo di ricerca scientifica della Noaa nell’anno fiscale 2026 che inizia il 1° ottobre.

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Il report climatoscettico che diventa un caso
E se il riscaldamento globale fosse “meno dannoso a livello economico rispetto a quanto comunemente si creda”? E se il livello dei mari non si stesse realmente alzando? E se la crescita della concentrazione di CO2 in atmosfera fosse una buona notizia? Queste affermazioni appaiono quanto meno azzardate, poiché sono in aperto contrasto con decenni di pubblicazioni scientifiche ai massimi livelli. Si possono leggere in un rapporto pubblicato – sempre durante l’estate 2025 – dal dipartimento statunitense per l’Energia. Un testo che gli scienziati interpellati da Science descrivono come “terribile”, “una revisione della scienza e della storia”.
Gli autori sono cinque ricercatori che mettono in dubbio il consenso scientifico sulla crisi climatica; li ha selezionati il segretario per l’Energia Chris Wright, con un passato da dirigente nel settore petrolifero. Questo studio da oltre 150 pagine, ancora da sottoporre a peer review, servirà infatti per fornire ulteriori argomenti a favore dell’alleggerimento delle politiche climatiche e ambientali statunitensi. Ma è già diventato un caso, attirandosi veementi critiche da parte della comunità scientifica.
Valentina Neri
