L’alluvione di Valencia è indiscutibilmente un fenomeno meteorologico estremo, ma l’eccezionale è destinato a diventare ordinario in un mondo stravolto dalla crisi climatica.
Abbiamo ancora negli occhi le terribili immagini dell’alluvione che ha colpito Valencia il 29 ottobre. Le strade trasformate in fiumi di fango, le auto ammassate l’una sull’altra dopo essere state trascinate via dall’acqua, i parcheggi sotterranei completamente allagati, le pile di detriti. Mentre il bilancio delle vittime è ancora provvisorio (si parla di almeno duecento morti) e luoghi iconici come la Città delle Arti e delle Scienze fungono da centri di smistamento per gli aiuti, le piogge torrenziali iniziano ad abbattersi anche su Barcellona, costringendo a cancellare treni, deviare voli aerei e chiudere strade. Ma come si è potuto verificare esattamente un disastro simile? E, soprattutto, è solo un caso isolato o l’inizio di un qualcosa di più grande?
Cos’è e quando si verifica la DANA
La cronaca dell’alluvione di Valencia ha reso familiare un acronimo che finora in Italia conoscevano soltanto gli addetti ai lavori: DANA, vale a dire Depresion aislada en niveles alto (depressione isolata nei livelli alti). Noto anche come “goccia fredda”, è un fenomeno meteorologico che si verifica abitualmente nel mar Mediterraneo occidentale all’inizio dell’autunno e della primavera.
Per capire come funziona, bisogna ricordare che alle alte latitudini le correnti sono più fredde e instabili. Proprio da una corrente a getto, cioè da un “fiume” di aria fredda che scorre velocemente ad alta quota da ovest verso est, in particolari condizioni si può “staccare” un sistema a bassa pressione che ha una circolazione interna chiusa. In sostanza, è un nucleo di aria fredda in quota che inizia a spostarsi lentamente, restando isolato rispetto al resto dell’atmosfera.
Cos’è successo dunque a Valencia? Che questa bolla di aria fredda è scesa di quota e lì si è incontrata con l’aria calda e umida, resa tale anche da un mar Mediterraneo che in superficie era molto più caldo rispetto alla media del periodo. Così, l’aria calda è risalita in fretta formando nuvole dense e cariche di umidità, che poi si è scaricata a terra con i violenti temporali a cui abbiamo assistito. La loro ulteriore particolarità sta nel fatto che si tratta di temporali autorigeneranti, cioè che persistono per diverse ore sulla stessa zona. Da qui i dati record sulla pioggia: il 29 ottobre il pluviometro di La Mojonera ha registrato 784,4 mm, l’equivalente delle precipitazioni che di norma cadono nell’arco di un anno intero.
Il ruolo dei cambiamenti climatici
Questo accenno al ruolo di un mar Mediterraneo sempre più caldo dovrebbe far accendere una lampadina. Perché arriviamo da un’estate in cui i record della temperatura superficiale sono stati infranti uno dopo l’altro: prima i 30 gradi nei pressi della spiaggia di Nizza, poi i quasi 32 gradi al largo dell’Egitto. Non è un caso, ma la logica conseguenza del riscaldamento globale: mari e oceani, infatti, assorbono fino al 90% del calore in eccesso dovuto all’azione dell’uomo. Il che ha una lunga serie di conseguenze, dalla fusione dei ghiacci con l’innalzamento del livello dei mari, fino alle alterazioni nella flora e nella fauna, all’avvento delle specie invasive e alla cosiddetta stratificazione, cioè l’impossibilità per gli strati oceanici di mescolarsi distribuendo le sostanze nutrienti. Il Mediterraneo in particolare, essendo un mare chiuso, tende a scaldarsi più velocemente rispetto alla media.
Questo significa in modo inequivocabile che il disastro di Valencia sia figlio dei cambiamenti climatici? Spetterà agli studi di attribuzione il compito di dare una risposta a questa domanda: perché la scienza dice chiaramente che il riscaldamento globale rende più intensi e frequenti gli eventi meteo estremi, ma bisogna poi valutare di caso in caso se questo rapporto di causa-effetto esiste e quanto è marcato.
L’alluvione a Valencia è talmente recente che non c’è stato ancora il tempo per portare a termine studi approfonditi. Un’analisi preliminare pubblicata da Climameter, però, sostiene che questa DANA sia stata “eccezionale”. E che queste depressioni che insistono sulla Spagna sudorientale portino fino a 7 millimetri di pioggia al giorno in più rispetto al passato: l’aumento è dunque rilevante, pari al 15%. Anche l’incremento della temperatura, scrivono gli autori, favorisce la formazione di tempeste nel bacino di Mediterraneo durante le DANA.
Mitigazione e adattamento: perché agire subito
“Le alluvioni ci sono sempre state ma ora il riscaldamento globale aumenta l’intensità delle piogge e la frequenza degli eventi estremi. Il Mediterraneo che si riscalda d’estate diventa un enorme serbatoio di energia e di vapore acqueo che alimenta le perturbazioni. Le precipitazioni intense di breve durata sono aumentate di circa il 12% e se i territori erano già esposti in precedenza a un elevato rischio idrogeologico, e magari pure soggetti a un incontrollato sviluppo urbanistico recente, un ulteriore incremento delle piogge diviene la classica goccia che fa traboccare il vaso e amplifica i danni”, sottolinea a Wise Society il meteorologo Luca Mercalli, presidente della Società Meteorologica Italiana e noto divulgatore.
Questa presa di coscienza non è una giustificazione per rassegnarsi. Al contrario, deve fungere da spinta all’azione. Due le priorità: la mitigazione e l’adattamento. Abbattere al più presto le emissioni è indispensabile per contenere l’aumento delle temperature entro il grado e mezzo rispetto ai livelli preindustriali, come auspicato dall’Accordo di Parigi sul clima. Ma, a nove anni di distanza e alla vigilia della Cop29 di Baku, sappiamo che questo processo finora è andato avanti con eccessiva lentezza. Il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite esorta gli Stati a presentare piani molto più incisivi, perché quelli attualmente in vigore porterebbero la temperatura media globale a crescere di 2,6-3,1 gradi entro la fine del secolo. Un’enormità.
In parallelo, bisogna lavorare per adattare il territorio, le infrastrutture, gli edifici, le fabbriche all’impatto di un clima che è già cambiato e continuerà a cambiare. Anche in questo caso, Valencia ci mostra chiaramente tutto ciò che non ha funzionato: un territorio fortemente urbanizzato anche attraverso la canalizzazione del Turia, sottopassi e parcheggi sotterranei trasformati in trappole.
Ma l’Italia non è da meno. Stando ai dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), nel corso del 2022 altri 76,8 chilometri quadrati del nostro Paese sono stati coperti da asfalto e cemento, per una media che supera i 21 ettari al giorno. In tutto, il 7,14% del suolo italiano è cementificato: una percentuale che però sale all’11% se si considerano soltanto le zone a rischio idrogeologico. Tornando al consumo di suolo registrato nel 2022, va sottolineato come il 35% riguardi aree a rischio sismico e un altro 7,5% aree dove c’è pericolo di frane.
Valentina Neri