Due studiosi vogliono rendere gli allevatori protagonisti del cambiamento per salvare ambiente, clima e animali. Sembra avere poco senso, eppure...
È possibile pagare gli allevatori per piantare alberi o produrre energia dove ora ci sono animali? È quello che immaginano Patrick Brown, professore emerito di biochimica presso la Scuola di Medicina dell’Università di Stanford e fondatore di Impossible Foods, un’azienda che sviluppa e produce carni a base vegetale e Michael Eisen, professore di genetica presso l’Università della California e investigatore dell’Howard Hughes Medical Institute. Sono loro che firmano un articolo sul Guardian dal titolo The case for paying ranchers to raise trees instead of cattle in cui immaginano concretamente investimenti in energia rinnovabile al posto degli allevamenti intensivi e allevatori trasformati in eroi della transizione energetica.
Nuove soluzioni contro gli svantaggi degli allevamenti intensivi
È noto infatti che la pratica dell’allevamento intensivo inquina e contribuisce significativamente al riscaldamento globale attraverso le continue emissioni dei potenti gas serra, metano e ossido di azoto prodotti dagli animali stessi. Tuttavia, poiché le stime della portata dell’effetto della cessazione dell’agricoltura animale spesso considerano un solo fattore, il beneficio potenziale di un cambiamento più radicale rimane sottovalutato.
La proposta infatti nasce anche considerando l’analisi del rendimento economico degli allevamenti intensivi. Gestire un allevamento, infatti, è un lavoro duro e non necessariamente redditizio. Anche in un paese ricco come gli Stati Uniti il reddito medio per acro degli allevatori è meno di 50 centesimi. In Unione Europea, sono i finanziamenti della PAC, la politica agricola Europea, che forniscono più del 100% del reddito degli allevatori di bovini, coprendo anche le perdite. E queste condizioni potrebbero peggiorare con l’aumento delle temperature, i cambiamenti nei modelli meteorologici e le carenze d’acqua.
Quali sono le alternative all’allevamento intensivo?
Da qui l’idea di convertire gli allevamenti intensivi in luoghi di rigenerazione ambientale e transizione energetica. Gli studiosi hanno calcolato che con un investimento globale annuale di circa 1 trilione di dollari, pari solo all’1% del PIL mondiale, si potrebbero pagare agli agricoltori che scelgono di passare dalla gestione del bestiame al ripristino e gestione delle foreste native e delle praterie. Secondo Michael B. Eisen e Patrick O. Brown, la riduzione o l’eliminazione dell’allevamento è una delle strategie necessarie per fermare il cambiamento climatico che riuscirebbe a stabilizzare i livelli di gas serra e compensare il 68 percento delle emissioni di CO2 in soli 30 anni. In questo modo:
- si aumenterebbe significativamente il reddito degli allevatori di bestiame
- si stimolerebbe lo sviluppo delle le comunità rurali
- si ridurrebbe rapidamente il riscaldamento globale
- si invertirebbe il collasso globale della biodiversità.
Quando chiuderanno gli allevamenti intensivi?
La carne bovina e il latte rappresentano meno del 13% dell’offerta mondiale di proteine. Inoltre, il consumo di carne bovina sta già diminuendo. Dopo il picco alla metà degli anni ’70, il consumo pro capite di carne bovina è diminuito di più del 20% globalmente e di oltre il 35% negli Stati Uniti. Visto che i cali più marcati negli ultimi due decenni riguardano i gruppi più giovani, sembra che questa tendenza sia destinata a continuare. Ma quindi, visto che i dati confermano che non abbiamo bisogno di allevare il bestiame, cosa ci impedisce di concretizzare questa trasformazione che porterebbe un miglioramento sulla crisi climatica e sul degrado ambientale?
Food for profit: politica, OGM e sussidi
Il perché sembra impossibile ipotizzare una effettiva chiusura degli allevamenti intensivi, lo chiarisce bene Food for profit, il documentario di Giulia Innocenzi e Paolo d’Ambrosi distribuito in maniera indipendente da marzo 2024. Il documentario mette in luce il sistema politico di sussidi e finanziamenti europei che assicura ampio spazio di manovra all’industria della carne. Le grandi aziende ottengono finanziamenti dalla Politica Agricola Europea basate anche sugli ettari dei terreni destinati alla coltivazione dei mangimi. In questo modo, la loro sostenibilità economica è assicurata, quella ambientale e legata al benessere animale no.
I maggiori gruppi decisionali vicini all’industria della carne si dedicano così a studiare soluzioni alternative per modificare geneticamente le caratteristiche degli animali e adattarle alle necessità degli allevamenti intensivi. Polli senza peli da non dover spennare, mucche giganti e così via. Intanto, anche le condizioni delle persone che lavorano negli allevamenti intensivi sono gravi: scarsi diritti sindacali e tanti problemi di salute. Anche la salute dei consumatori è a rischio perché quella che acquistiamo è la carne di animali quasi sempre malati, sofferenti e costretti in pessime condizioni igieniche. Come afferma lo scrittore Jonathan Safran Foer nel documentario: «non è una questione politica nel senso di destra VS sinistra, ma noi contro noi».
Patrizia Riso