Un decreto in vigore da dicembre 2018 stabilisce regole ferree per pane e panifici
Pane fresco o conservato? O, meglio, a durabilità prolungata così come è definito, in alternativa, nel decreto in vigore dallo scorso 19 dicembre che, finalmente, ha fatto chiarezza su una questione molto dibattuta che riguarda i limiti di utilizzo della dicitura «pane fresco». Come stabilisce il decreto il pane fresco è solo quello preparato senza l’utilizzo di additivi conservanti o qualsiasi altro trattamento che abbia effetto conservante in un intervallo di tempo che, dall’inizio della lavorazione alla messa in vendita, non può superare le 72 ore e la cui lavorazione non può subire alcuna interruzione finalizzata al congelamento o alla surgelazione. Un’indicazione importante che, esclude dalla possibilità di utilizzare la denominazione “pane fresco” anche per tutto quel pane che, pur senza conservanti, viene abbattuto per essere messo in vendita in un momento successivo. Tutto il pane che non rispetta le semplici regole dettate dal decreto deve essere messo in vendita con la dicitura «pane conservato» o «a durabilità prolungata» ed essere esposto in scomparti separati da quelli del pane fresco.
La questione non è nuova e riguarda un prodotto che, se pur in calo nel consumo procapite abbassatosi a circa 164 grammi al giorno, è ancora parte integrante della dieta di una buona parte degli italiani. Ed è proprio a questi ultimi che il legislatore ha voluto garantire trasparenza in un momento in cui il pane non è più venduto esclusivamente nei panifici. È ormai consuetudine, infatti, acquistare il pane anche nei supermercati. E, salvo alcuni di questi, con un proprio reparto di panificazione interna, nella maggior parte dei casi il pane in vendita viene semplicemente decongelato in appositi forni nella struttura.
Anche in questo frangente interviene lo stesso decreto stabilendo che non tutte le rivendite di pane possono fregiarsi della denominazione di “panificio”. Per panificio, infatti, s’intende soltanto l’impresa che «svolge l’intero ciclo di produzione dalla lavorazione delle materie prime alla cottura finale» del pane «ed, eventualmente, altri prodotti da forno e assimilati o affini». Ne consegue che chi si limita a rivendere pane non può scrivere “panificio” nella propria insegna.
Del decreto, punto d’approdo di una discussione che va avanti da anni, però, almeno fino adesso non si è parlato abbastanza. E non sono soddisfatti nemmeno i panificatori perché, come spiega Antonio Cera, fondatore del “Manifesto futurista del pane“, «in queste disposizioni non c’è alcuna salvaguardia della qualità, chi fa il pane cattivo può continuare a farlo». L’unica salvaguardia, spiega il panificatore messinese Francesco Arena, «far capire ai consumatori che è impossibile acquistare pane di qualità a 2 euro al chilo. Se si prendessero la briga di leggere l’etichetta del pane a durabilità prolungata si renderebbero conto della presenza di miglioratori che possono essere naturali (enzimi e/o malto per innescare la lievitazione) o chimici come acido ascorbico, acido tartarico, antimuffa, antifilante necessari per la lunga conservazione del pane». Non sempre, però, le etichette sono veritiere. «Esistono – conclude Pascal Barbato che fa il pane in Puglia – miglioratori termolabili di cui non si trova traccia quando il pane è messo in vendita e, di conseguenza, potrebbero anche non essere indicati».