In Gran Bretagna se ne raccomanda l'utilizzo per aiutare i consumatori a scegliere cibi sani. Il "rosso" per tanti prodotto italiani scatena la guerra...
Possiamo chiamarla la “disfida dei semafori”, anche se la circolazione stradale non c’entra affatto. I semafori incriminati, rei di avere spaccato in due l’Europa, sono quelli che il ministero della Salute britannico, da qualche mese, ha “raccomandato” di inserire a corredo delle etichette degli alimenti per aiutare i consumatori a fare la spesa. Così il simbolo verde è assegnato agli alimenti che possono essere consumati senza limiti, quello giallo abbinato ai cibi da consumare con moderazione e quello rosso va a braccetto con quelle pietanze che rappresentano “strappi” consentiti una volta ogni tanto: per gola e non per necessità.
Il “consiglio” del ministero britannico è già stato seguito da 31 compagnie della grande distribuzione organizzata e discount d’Oltremanica. Ma la tensione rimane più che alta, soprattutto a Bruxelles, dove vanno in scena tutte le puntate della telenovela che dovrebbe armonizzare le indicazioni obbligatorie da indicare nelle etichette alimentari dei Paesi dell’Unione. In Italia, nei primi giorni del 2014, è stata approvata all’unanimità una mozione che impegna il Ministero all’emanazione di decreti attuativi sull’obbligo di indicare l’origine degli alimenti.
Nel frattempo, però, c’è stato il via libera ai “semafori” della discordia a partire dalla Gran Bretagna. Scelta che ha trovato nel Belgio un valido alleato del governo inglese, ma che ha fatto storcere il naso a Italia e Francia in un momento in cui il protezionismo, a livello commerciale, sembra essere tornato in auge. Cosa lamenta il ministro della Salute italiano, Beatrice Lorenzin? C’è il rischio, sostiene, che a essere penalizzati risultino alimenti tipici del Belpaese e protagonisti di un regime dietetico mediterraneo: a partire dall’olio extravergine d’oliva per finire ai salumi e ai formaggi. Ma la Gran Bretagna va dritta per la sua strada: «La nostra scelta è in piena regola con quanto dichiarato dall’articolo 35 del regolamento 1169 del 2011, che permette forme aggiuntive di espressione delle informazioni nutrizionali». In realtà le aziende, per ora, non hanno alcun un obbligo, ma soltanto un’opportunità: che stanno però dimostrando di condividere.
«Un tale approccio classifica gli alimenti in “buoni e cattivi” è in contrasto con le politiche nutrizionali del nostro Paese, volte a promuovere la conoscenza della ricchezza e della diversità degli alimenti – afferma Silvio Borrello, direttore generale del Ministero della Salute -. Prendiamo l’esempio di alimenti tipici della dieta mediterranea. La sogliola riceverebbe un semaforo giallo a causa del contenuto di grassi, pur trattandosi di omega 3 ritenuti fondamentali all’interno di una dieta equilibrata. Analogo destino incontrerebbero l’olio extravergine d’oliva e la frutta secca, mentre una bevanda gassata con edulcoranti otterrebbe un semaforo verde per il contenuto in zuccheri».
Quanto possono davvero essere utili i “semafori” a ridurre il dilagare dell’obesità, che in Gran Bretagna riguarda più del 50% della popolazione? «Diversi studi dimostrano come un sistema simile permetta di compiere scelte più salutari – spiega Andrea Ghiselli, medico nutrizionista e dirigente di ricerca del Centro di ricerca per gli alimenti e la nutrizione (Cra-Nut) -. In pochi, però, considerano che così non si educa il consumatore, ma lo si pone di fronte al fatto compiuto. Occorrerebbe responsabilizzare le scelte: non esistono alimenti buoni o cattivi». Per i “semafori” sulle etichette vale lo stesso discorso fatto per l’indice glicemico, che indica la velocità con cui aumenta la glicemia in seguito all’assunzione di un alimento contenente almeno 50 grammi di carboidrati. Spaventati da questo valore, espresso in percentuale rispetto a quelli “standard” dello zucchero e del pane bianco, oggi molti adulti hanno chiuso la porta in faccia alla pasta e al pane. Secondo Ghiselli, però, «le scelte drastiche non aiutano. Sarebbe utile, invece, potenziare gli strumenti di educazione alimentare che possono aiutare il consumatore a leggere le etichette come una cartellonistica più visibile nei punti vendita».
Nel frattempo, a dare sostanza alla scelta compiuta Oltremanica, è arrivato uno studio pubblicato sull’American Journal of Preventive Medicine. Secondo la ricerca, condotta al Massachussets General Hospital, il sistema, a due anni dalla sua introduzione in via sperimentale nella mensa e nella caffetteria dell’ospedale, «ha avuto successo e ha modificato i modelli di acquisto sia dei lavoratori che dei clienti esterni, facendo diminuire la spesa per i prodotti più grassi (-20%) e aumentare quella per gli alimenti contrassegnati con il bollino verde (+12%)».
Un metodo così drastico può, in apparenza, migliorare la situazione. Ma, in attesa del 2016 quando tutti i Paesi dell’Unione Europea saranno chiamati a utilizzare l’etichetta nutrizionale con le indicazioni sia dei principi nutritivi sia dell’apporto calorico, il consiglio è di far riferimento ai valori giornalieri di riferimento, indicati in etichetta come Gda. Disponibili per l’energia e, anche in percentuale, per i quattro nutrienti più importanti che possono aumentare il rischio di sviluppare malattie legate alla dieta – grassi, grassi saturi, zuccheri e sodio (o sale) -, ne esistono di specifiche anche per gli alimenti destinati ai bambini.