Una ricerca dell'Università di Perugia mostra come i superfrutti italiani contengano quantità più elevate di zeaxantina dipalmitato e possano essere un valido supporto per la salute di tutti
Per Nicola Rizzo, calabrese con una visione imprenditoriale dell’agricoltura, la sperimentazione e l’innovazione sono i due concetti guida per la gestione dell’azienda agricola di famiglia Favella, fondata dal nonno nel 1932. Negli anni, oltre l’allevamento di bufale (che oggi sono 700), la trasformazione diretta dei prodotti e l’apertura di un ristorante a Roma – il Buff – nel quale servire soltanto prodotti coltivati, allevati e trasformati nella propria azienda nella quale, manco a dirlo, l’utilizzo dell’energia rinnovabile la fa da padrone. Nell’impianto a biogas, per esempio, tutti gli scarti diventano riutilizzabili e le serre sono fotovoltaiche per una produzione di elettricità di 32 milioni di KWh.
L’ultima scommessa della famiglia Rizzo è la diversificazione delle colture. Così da sette anni nella Piana di Sibari, oltre agli agrumi, si raccolgono bacche di goji e il finger lime. «Abbiamo pensato su quali coltivazioni potevamo puntare e la decisione è caduta sul goji», racconta Rizzo che tre anni fa ha messo a dimora 20.000 piante. Oggi l’azienda calabrese conta 60.000 piante di cui 18.000 sotto serra e il resto in pieno campo tra la Calabria e il Padovano dove sono 13.000 le piante coltivate.
Bacche di goji italiane: un prodotto di eccellenza
Ma a la Favella non si sono fermati, perché ogni innovazione ha bisogno di conferme scientifiche e, fino a pochissimo tempo fa, le bacche di goji destinate al consumo erano esclusivamente cinesi. Così Rizzo si è affidato all’Università di Perugia, e in particolare a Francesca Fallarino, docente di farmacologia molecolare del Dipartimento di Medicina Sperimentale, e a Domenico Montesano, ricercatore del Dipartimento di Scienze Farmaceutiche, sezione Scienza degli Alimenti e Nutrizione della stessa università, per fare una ricerca comparativa tra il goji cinese e quello italiano ottenendo risultati sorprendenti: il prodotto italiano è migliore di quello asiatico.
«Dai risultati ottenuti nei nostri laboratori – spiegano i due – abbiamo rilevato che la zeaxantina dipalmitato (la sostanza che fa delle bacche di goji un cibo nutraceutico) estratta dalle bacche di goji, coltivato a Corigliano Calabro, è presente in alte concentrazioni. Per questo è in grado di esercitare rilevanti attività biologiche di interesse per la salute umana». Ricerche che non si sono fermate. «Stiamo continuando – hanno aggiunto i due – a lavorare sulla bioaccessibilità e biodisponibilità di questa molecola che ha anche un’attività antinfiammatoria in linee cellulari di macrofagi trattati con agenti infiammatori come il lipopolisaccaride (LPS), un componente della parete dei batteri».
Altra caratteristica importante è quella della possibilità del consumo del prodotto fresco. «Il goji – ha spiegato lo chef stellato Enrico Bartolini – è importante non solo per il suo valore nutraceutico, ma piò essere sfruttato anche in cucina: attraverso il corretto consumo le due cose sono in perfetto equilibrio». «Dal punto di vista enogastronomico il goji, che è una solanacea appartiene alla stessa famiglia del pomodoro, ha dolcezza e piccantezza con una grande concentrazione antiossidanti. È un frutto carnoso, ma non è adatto a frullarlo o a farlo confit. In tavola si può abbinare con mozzarella e burrata o col pesce; nella mixology il succo di goji si può legare a uno spumante dalla struttura ricca o a succo di mela, ananas e mandorla».