Wise Society : Oltre le sbarre, il palcoscenico

Oltre le sbarre, il palcoscenico

di di Francesca Tozzi
23 Luglio 2010

Una regista e un fotografo di scena parlano degli spettacoli realizzati con i detenuti. Occasioni per sbloccare emozioni, mettere in scena paure, ansie, ricordi. Per evadere da un quotidiano stereotipato. E sentirsi più liberi

Che cosa significa entrare in un carcere per dirigere in scena un gruppo di non professionisti, entrare in contatto con un’umanità problematica e guardata con sospetto dalla società? Ne abbiamo parlato con la regista dei laboratori teatrali tenuti all’interno del Carcere Mammagialla di Viterbo, Mariella Sto, e con Daniele Vita, il fotografo di scena. «Il mio approccio non è quello della volontaria ma della teatrante», precisa Mariella. «Non c’è differenza nel modo di impostare e sviluppare il lavoro che svolgo dentro o fuori dal carcere. Diciamo che il primo bisogno è stato il mio e non quello dei detenuti. Certo, il lavoro in carcere assume tutta una sua specificità per l’intensità, la compressione e lo sbocco delle emozioni, per le storie non ordinarie che vengono raccontate, ma l’impulso che mi ha spinta a entrare a Mammagialla di Viterbo è stato quello di andare a trovare un luogo reale e a me fino ad allora sconosciuto, in cui l’azione teatrale potesse trasformarsi in esperienza di esistenza. Un luogo dell’urgenza dove il racconto, la soggettività, la verità del singolo premono per essere espresse».

Teatro in carcere, foto di Daniele Vita

«I primi anni ho risentito delle attese interminabili di fronte a una porta specchiata, sapendo che dietro c’era sempre qualcuno che ti guardava e diceva “facciamolo aspettare anche sotto la pioggia o le mille perquisizioni sia del materiale fotografico sia fisico prima di entrare in carcere», racconta Daniele. Tutto questo ha influenzato le mie prime fotografie. La mia conoscenza del laboratorio è marginale, nel senso che spesso i permessi per accedere sono molto brevi; ogni volta che vengo chiamato, però, cerco di essere il più concentrato possibile, nel rispetto del lavoro fatto dal gruppo. Il carcere è una tema a me caro e mi ha molto emozionato l’ultimo spettacolo a Viterbo».

 

Teatro in carcere, foto di Daniele VitaMariella lavora con persone recluse per reati comuni, in alta sicurezza, solitamente pene molto lunghe per reati legati al mondo della criminalità organizzata, e da quest’anno, in una sezione protetta, dove i detenuti, la maggior parte dei quali sconta una pena per reati sessuali, sono isolati per evitare incidenti. «Io e Cristina Failla, la danzatrice che lavora con me, siamo state a lungo combattute prima di accettare la proposta di lavorare con questo nuovo gruppo», racconta la regista. «Poi, come sempre, ci siamo trovate di fronte a gente in carne e ossa che sta scontando una pena. Questo ci è bastato per cominciare a lavorare. La pena è stata già comminata dal giudice per garantire la società».

La regista preferisce partire dal nulla e osservare che direzione prende il lavoro. «Da un’improvvisazione costituita da esercizi soprattutto fisici passiamo a una ricerca di ritmi, sonorità, gesti espressivi ed evocativi che diventano la grammatica del racconto», racconta. «Vogliamo costruire un’esperienza collettiva in cui le singole storie vanno oltre le individualità. È un lavoro che vive di interazione, conflitti, soluzioni, incertezze e cambiamenti, nella prospettiva di far dialogare linguaggi e atteggiamenti a volte lontani o imprevisti. In poche parole, si tratta di ricostruire e restituire uno sguardo su un’umanità complessa. Nel primo lavoro che ho condotto nel carcere di Viterbo, La Caccia, siamo partiti da Il Signore delle Mosche di W. Golding. La trama del romanzo si prestava a una rielaborazione e reinvenzione dei temi. L’isola deserta, la scelta tra organizzazione democratica e allineamento dalla parte del prevaricatore, la legge o la forza. È stata l’occasione per ripercorrere momenti di vita vissuta a prezzo di accadimenti drammatici a volte rimossi. Ci siamo chiesti, seduti in cerchio, cos’è la paura. Quale parola potrebbe cambiare la nostra vita. A chi avremmo voluto mostrare la nostra forza. Dove ci spinge la perdita del senso del limite… Per me è stato un momento di grandissima crescita umana e professionale dover dirigere un percorso del genere. La stessa messa in gioco che ho richiesto agli attori ho dovuto attuarla anch’io in prima persona, e non è stato facile all’inizio. Avevo molti dubbi su come pormi. Il nodo si è sciolto quando ho deciso di condividere tutto il tormento che mi si era creato dentro e si è potuto andare avanti a costruire il resto con chiarezza».

«Facendo ricerca spesso i fotografi si dedicano a lavori che durano anni e non vengono mai pubblicati o pagati con soldi che non servono neanche a compensare le spese sostenute. Ma lavorando nelle carceri ho visto persone sfortunate che attraverso il teatro sono riusciti a trovare un momento di evasione dal quotidiano». «La sala teatrale è enorme rispetto alle celle, ma è chiaro che, al di là delle dimensioni, è un luogo di libertà», aggiunge Mariella. «Un posto dove  immaginare, richiamare alla memoria, esplorare, sdraiarti, sederti per terra, svincolandoti dalle relazioni prestabilite (detenuto/autorità, ma soprattutto detenuto/detenuti). Nel laboratorio si lavora sulla consapevolezza, sulle relazioni e sulle motivazioni: è un lavoro importante in un luogo come il carcere in cui tutto è stereotipato e ripetitivo. E quasi tutti, per la prima volta nella loro vita, scelgono di ritrovarsi in gruppo intorno a un fatto culturale, di libertà di pensiero e di rappresentazione».

Teatro in carcere, foto di Daniele Vita

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