Wise Society : Le mie immagini parlano con la voce della natura

Le mie immagini parlano con la voce della natura

di di Sebastiano Guanziroli
17 Novembre 2010

"My Wild Places", l'antologia del fotografo veneziano a Palazzo Fortuny, propone una scelta dei suoi noti paesaggi scarni e inanimati. Immagini senza tempo, aspre ed essenziali, che raccontano quel che all'autore sta più a cuore: la potenza e la poesia della natura. Di fronte alla quale mettersi in ascolto

«La fotografia è fermare il momento, perché una volta che lo hai perso, se n’è andato per sempre». Lo diceva Henry Cartier-Bresson, uno dei maestri di quest’arte. I paesaggi fotografati da Luca Campigotto, invece, sembrano lì da sempre e per sempre, immutabili e immobili. Ritratti ieri o diecimila anni fa. Evocano un senso di eternità e saggezza che l’uomo, assente, non può turbare.

In mostra a Palazzo Fortuny a Venezia (fino al 9 gennaio 2011) le 40 fotografie che Campigotto ha raccolto sotto il titolo My Wild Places e compongono una sorta di antologia dell’artista veneziano: coprono vent’anni di attività in giro per il mondo di un artista che nel catalogo della mostra si definisce “collezionista di luoghi, anzi, di idee di luoghi”. Patagonia e Lapponia, Cile e India, ma anche le Dolomiti e la spiaggia di Lignano, perché ogni luogo filtrato dall’obiettivo della macchina fotografica può diventare “wild”, selvaggio. «Il comune denominatore delle opere esposte», spiega Campigotto, 48 anni, 20 dei quali dedicati alla fotografia dopo la laurea in storia moderna «è il mio sguardo. Non c’è una sequenza temporale, a tenere insieme il tutto è quel filo rosso inconscio che è la mia meraviglia, il mio essere attirato dalla durezza di certi luoghi ed  elementi primordiali come l’acqua, il ghiaccio e i sassi: le mie sono foto di paesaggi aspri e scarni. Non c’è verde, non c’è giungla, né foreste». Verrebbe quasi da dire che non c’è vita, e forse proprio per questo sembrano eterne. «Non sono immagini databili e luci e inquadrature sono scelte proprio con questo intento. È come se cercassi di costruire un’immagine iconica e definitiva di un soggetto geografico: fotografare un ghiacciaio, per esempio, come fosse “il” ghiacciaio. O la scia di una nave come fosse “la” scia di una nave».


Inserire figure umane in questi contesti sarebbe come minare alla base quest’idea di fotografia. Lo sguardo cadrebbe subito sull’uomo e verrebbe subito da chiedersi che storia ha, si guarderebbero i suoi vestiti, il suo volto, la direzione in cui sta andando. E infatti nelle foto di Campigotto l’uomo non c’è, relegato alla presenza minima di alcune mongolfiere in lontananza o di alcune figurine in silhouette sul fondo di un paesaggio iraniano. «Come artista non mi interessa molto la presenza dell’uomo», prosegue Campigotto, che oltre alla fotografia di paesaggio si dedica a quella d’architettura e industriale «La fotografia sociale è molto importante e ha grande valore, ma personalmente sono più affascinato dalla poesia e dalla potenza dei paesaggi inanimati. Non è nelle mie corde raccontare storie o eventi o aneddoti, voglio solo restituire la grandezza del mondo che si manifesta nei suoi elementi essenziali». L’unica presenza umana è un’ombra che si staglia su una strada deserta, nella foto che apre il catalogo. L’ombra del fotografo. «E’ un’immagine autobiografica, scattata la prima sera del mio primo viaggio in Cile. In un posto come quello vedi e senti una natura che noi europei non riusciamo nemmeno a immaginare, la natura davvero selvaggia degli elementi. È stato durante quel viaggio che ho capito che fare questo tipo di foto era la mia passione».


My Wild Places raccoglie opere a colori e in bianco e nero, indistintamente: «Ho sempre scattato in bianco e nero», spiega Campigotto, che prossimamente conta di partire per la Namibia alla ricerca di altri paesaggi “limite”«perché penso che incarni la purezza di un’idea originaria: la foto nasce dal bianco e nero e in bianco e nero, che è senza tempo. Ho iniziato a usare i colori con il passaggio al digitale, perchè ti permette di controllare meglio le sfumature, e sceglierle esattamente come le hai in mente. Ma non è tanto una questione di manipolazione della foto, quanto di libertà creativa».

In immagini come queste, senza tempo, non può esserci un intento di testimonianza né di denuncia. L’unico messaggio che sembra scaturire da questi luoghi è proprio il loro essere immutabili, nonostante l’azione spesso distruttiva dell’uomo. Però Luca Campigotto scrive nel catalogo che «le semplici ragioni della bellezza sono la base di ogni consapevolezza ecologica». C’è forse un significato più nascosto dietro queste fotografie? «No, però è evidente che in me si è sviluppata una certa sensibilità, che prima non avevo, attraverso la contemplazione della bellezza. Come ho già detto non sono particolarmente attento alla denuncia, alla testimonianza, quanto piuttosto all’evocazione. In Patagonia ho scattato moltissime foto di alberi bruciati per far posto ai pascoli. Guardandoli ho avuto l’impressione di essere su un campo di battaglia, a battaglia finita. Come fossero cadaveri ammucchiati. Per me era solo un’immagine forte ed evocativa, ma a chi la guarda può suggerire qualcosa di più». Per esempio che un paesaggio potrebbe un giorno non esistere più, come il nevaio dolomitico fotografato 15 anni fa e oggi scomparso.

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