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Renato Gilioli: non lavorare è un vero stress

di di Francesca Tozzi
15 Febbraio 2011

Il neuropsichiatra milanese ci spiega che la condizione più pesante è l'emarginazione sul posto di lavoro, perchè intacca l'autostima. Difficile anche il licenziamento in età critica, per la difficoltà di riciclarsi. La via d'uscita? Aumentare la “resilienza" cioè l'innata capacità di fronteggiare i problemi e non perdere la fiducia in se stessi

Renato Gilioli, neuropsichiatra Specialista in medicina del lavoro, nel 1995 ha fondato il Centro per il disadattamento lavorativo della Clinica del lavoro di Milano, dove ha avuto modo di studiare la più cospicua casistica di mobbing giunta all’osservazione clinica della medicina italiana. 


Parliamo dello stress da ipoattività e inattività…

 

La condizione peggiore di ipoattività, e purtroppo più comune di quanto si pensi, è quella di chi, pur lavorando, viene costretto a una condizione di inoperosità forzata: gli vengono tolti incarichi e responsabilità; viene relegato ai margini e trattato con condiscendenza; in definitiva non può lavorare e non può esprimere le proprie competenze e capacità. Questa è la condizione più stressogena in assoluto perché intacca l’autostima. Subito dopo c’è quella del lavoratore che a 50 anni viene licenziato e deve trovare il modo di riciclarsi. La disoccupazione dopo un licenziamento è più stressogena di quella di chi un lavoro non l’ha mai avuto perché tocca la persona nel profondo: chi viene licenziato dopo anni di attività si sente svilito, umiliato e messo ai margini. E va in crisi.

 

Senior Man Standing in Corner, Bill Varie/CORBISQuali possono essere le conseguenze sul piano psicofisico?


Si va dai disturbi del sonno alla tachicardia alle crisi ipertensive che possono trasformarsi in ipertensione arteriosa; i fenomeni di asma spesso subiscono una recrudescenza e molto comuni sono anche i disturbi a carico dell’apparato gastrointestinale come la disfagia e il riflusso gastroesofageo. Il tutto va inserito in un quadro depressivo per cui la persona non ha più fiducia in se stessa, si sente incapace di affrontare la realtà quotidiana e quindi non riesce a proporsi ai colloqui di lavoro con un atteggiamento “vincente” perché gli manca l’energia psichica necessaria ad affrontare al meglio le situazioni. Oggi più che mai l’immagine è importante: il mondo del lavoro cerca gente assertiva, capace di vendersi bene. Questa condizione mina poi anche i rapporti sociali e ha un riverbero su tutto il contesto esistenziale.

 

E i precari che lavorano un mese sì, uno no, l’altro non si sa?

 

Anche questa è una condizione oggi molto comune. Diciamo però che la precarietà non è una condizione senza speranza e che non intacca il senso di autostima come fa invece l’inoperosità in chi non ha un lavoro o viene messo nelle condizioni di non poterlo fare: in questi casi, infatti, la persona tende ad attribuire a sé il fallimento, pensa sia dovuto a incapacità insite al suo bagaglio culturale e formativo, e si lascia andare perché non vede via d’uscita. Il precario si sente frustrato e irritato, è arrabbiato e ribelle contro il sistema ma non ha perso la fiducia in se stesso: possiede ancora margini di recupero e operatività; se è giovane, poi, ha delle risorse psichiche maggiori che sono utili a tamponare la situazione.

 

Paperwork Stacked On Businessmans Desk, autore Lael Henderson/Images.com/CorbisCome si elimina lo stress?


Lo stress è una componente che non si può eliminare. Pensiamo al cosiddetto “tecnostress”: stare tutto il giorno al telefono, o davanti a un pc o con gli occhi attaccati a monitor e radar… sono mansioni che richiedono una soglia di attenzione alta, così come il mestiere del chirurgo, del controllore di volo e di chiunque ricopra posizioni delicate e di responsabilità. Tutto questo causa stress ma è uno stress di superficie, non intacca la persona nel profondo, non mette in crisi la coscienza di sé. È la profondità il punto critico, il vero fattore stressogeno. Se non si può eliminare lo stress, si può, però, provare a ridurne il carico.


In che modo?


La capacità di coping, ovvero quella fronteggiare in modo efficace i problemi, gestendo e minimizzando stress e conflittualità, dipende dalla propria struttura di base, dalle esperienze e dal vissuto. Un contesto favorevole che rinforzi l’autostima, per esempio una rete di amicizie positive o una condizione familiare gratificante, aumenta la “resilienza”, ovvero l’attitudine naturale delle persone a far fronte agli eventi stressanti: questo termine che arriva dal settore della metallurgia, indica proprio la capacità dei metalli di resistere allo stress termico. Ci sono livelli di stress più leggeri dove l’attività fisica può essere utile e altri in cui è efficace la psicoterapia cognitivo-comportamentale. Sui fattori interni si può però intervenire fino a un certo punto. È invece necessario agire sugli stimoli esterni in chiave preventiva, tramite adeguate politiche sociali e strategie aziendali.

Businessman walking away from conference table, Plush Studios/Bill Reitzel/Blend Images/Corbis

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