Wise Society : Carlo Colloca: «La progettazione urbana deve partire dall’analisi sociologica»
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Carlo Colloca: «La progettazione urbana deve partire dall’analisi sociologica»

di Maria Enza Giannetto/Nabu
2 Marzo 2018

Carlo Colloca, professore di Sociologia dell'Ambiente e del Territorio, parla dell'importanza della progettazione partecipata negli interventi di rigenerazione

«La progettazione urbana del territorio non può prescindere dai bisogni, le aspettative, le necessità e le domande da parte di quelli che sono i destinatari del progetto, ovvero i cittadini. Inoltre, la popolazione va stratificata, perché donne, bambini, giovani, adulti, anziani, immigrati e diversamente abili hanno bisogni, aspettative, necessità e domande diversi tra loro. E questo tipo di identificazione dovrebbe essere condotta con strumenti propri delle scienze sociali, proprio come la Sociologia del territorio».

Il sociologo calabrese Carlo Colloca, classe 1975, è docente di Analisi sociologica e Metodi per la Progettazione del Territorio nel dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania. Consulente della Camera dei Deputati-Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza e di identificazione dei migranti e Segretario del Consiglio Scientifico dei Sociologi del Territorio dell’Associazione Italiana di Sociologia, nella sua attività di ricerca ha sempre rivolto la sua attenzione ai processi del mutamento socio-territoriale, in particolare in riferimento alla città meridionale, all’immigrazione e al rapporto fra giovani e spazi urbani. Non a caso, nel 2014, ha curato l’analisi della domanda di progettazione delle popolazioni residenti nel quartiere di Librino a Catania nell’ambito del progetto di Rammendo delle periferie G124 promosso e finanziato dall’architetto e senatore Renzo Piano.

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Una foto d’epoca del quartiere Gratosoglio di Milano esempio di progettazione urbana discutibile degli anni ’60, Foto Antonella Beccaria Flickr

Professore Colloca, come si articola l’approccio sociologico all’analisi dei territori?

L’approccio per cercare di raccogliere e analizzare le domande di progettazione è di tipo quantitativo. Su un quartiere di periferia, ad esempio, tutto parte dalla conoscenza del numero degli abitanti, della loro età media, dai livelli di disoccupazione e di tutti quei dati quantitativi che permettono di avere una fotografia del profilo socio-demografico del territorio. Tutto questo, ovviamente, oltre alla conoscenza delle caratteristiche di urbanistica, architettura e territorio. Quando, incrociando gli aspetti socio demografici e socio territoriali si ha in mano questa fotografia si possono attivare dei focus group o town meeting in spazi cittadini che permettano l’incontro tra gli abitanti e la loro partecipazione a tavoli tematici condotti da un moderatore (appunto, un sociologo) dove vengano affrontate alcune tematiche specifiche.

Quali sono, secondo la sua esperienza, le attività corrette da mettere in atto perché la progettazione partecipata possa davvero funzionare?

Esistono varie fasi che coincidono con singoli stadi del progetto. Innanzitutto serve una buona comunicazione da parte dell’amministrazione locale che deve essere in grado di confezionare un messaggio chiaro e di divulgarlo in modo da raggiungere il maggior numero di destinatari possibili. La seconda fase è quella dell’animazione, ovvero il momento in cui ci si mobilita anche con piccoli eventi sul territorio – ad esempio una mostra con un rendering che indichi com’era, com’è e come sarà il luogo dell’intervento – in cui si coinvolge la cittadinanza per spiegare cosa si vuol fare. Il terzo momento della progettazione è quello della consultazione in cui, ad esempio, si cercano di raggiungere i cittadini anche con inchieste, sondaggi, focus e si possono accogliere anche stimoli. Alla fine di queste fasi, il sociologo, in genere utilizza delle mappe di cartografia sociale da riconsegnare all’ente che gli ha affidato la ricerca. La quarta e ultima fase, quella dell’empowerment, di fatto riguarda proprio l’ente e il rapporto diretto con i destinatari che, a questo punto, devono già essere coscienti di cosa aspettarsi, si sentono responsabili e si rendono conto se i loro bisogni sono stati rispettati o meno. In questo percorso, il sociologo non è solo ricercatore che si occupa di raccogliere e analizzare i dati ma svolge anche un lavoro di mediatore sociale visto che, com’è deducibile, è facile che si creino conflitti tra i cittadini sfiduciati nei confronti delle istituzioni. Non nego, infatti, che la progettazione partecipata, in certi casi, non manchi di retorica. Chi fa il mio mestiere, deve anche saper riconoscere i progetti e capire se prestarsi a certi percorsi che intendono davvero coinvolgere i cittadini e rifiutare quelli che vogliono solo creare consenso per poi abbandonare le richieste.

Street art a Roma

Foto di Andrea De Angelis da Pixabay

Oggi si parla tanto del decoro delle città e delle periferie. Che significato dà lei a questo termine?

Spesso si ritiene che la rigenerazione urbana si esaurisca con l’aspetto fisico, ovvero la manutenzione della strada e il rifacimento delle facciate dei palazzi. La rigenerazione urbana, invece, si ottiene incrociando più aspetti: fisici, economici, culturali e sociali. Solo l’insieme di questi fattori creano una rigenerazione integrata. Purtroppo, invece, oggi va molto di moda l’intervento sull’aspetto fisico, ad esempio con la street art che, invece di intervenire su aspetti strutturali interviene su quelli sovrastrutturali. Io non faccio crociate contro l’arte di strada, ma credo che sia importante dire che il più delle volte una pennellata, anche se affidata a un artista, non è decoro ma decorazione. Allo stesso modo, sono convinto che gli interventi di street art che, ad esempio, possono anche comprendere verde orizzontale oppure arredi in pallet, a volte rientrino in una vera e propria retorica perché, in nome di una presunta sostenibilità affidata al recupero e riuso dei materiali, di fatto spesso sono lesivi delle identità architettoniche specifiche di un luogo e li rendono anonimi.

Nel 2014 lei ha partecipato al progetto di Rammendo delle periferie promosso da Renzo Piano. Crede che quello utilizzato dai vostri team sul territorio sia un modello ripetibile su larga scala?

Il format è, assolutamente, ripetibile ma bisogna applicarlo su spazi circoscritti. Bisogna svolgere, per riprendere la soluzione avanzata da Jaime Lerner, l’ex sindaco di Curitiba in Brasile, interventi di agopuntura urbana. Solo facendo leva su piccoli punti di pressione nelle città, possiamo dare luogo ad effetti a catena che investono ampie aree. L’intervento di agopuntura è mirato su una superficie limitata e ha il vantaggio della lentezza. È importante che ci sia la figura, per usare un’altra metafora cara a Renzo Piano, dell’architetto condotto che come il medico di famiglia di un tempo, si prende tutto il tempo per ascoltare i bisogni, per fare l’analisi e la diagnosi. A quel punto, la lentezza può lasciare il posto alla velocità nel prendere la decisione che è più semplice perché sai dove mettere le mani. La forza dei progetti di G124 risiede anche nel loro concludersi con un intervento che è come una scintilla, un’azione di empowerment che dimostra al territorio che può farcela. Viene proposto e spiegato un metodo ma poi bisogna lasciare spazio allo sviluppo autonomo, altrimenti si parla di sviluppo assistito che purtroppo al Sud conosciamo bene e che non dà alcun risultato duraturo.

 

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