Wise Society : Mauro Ferrari: dalla crisi si esce anche investendo nella ricerca
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Mauro Ferrari: dalla crisi si esce anche investendo nella ricerca

di Francesca Tozzi
1 Ottobre 2012

Il direttore del Methodist Hospital Research Institute a Huston spiega le potenzialità dei nuovi nanofarmaci anticancro. E all'Italia dice: investire nella bioingegneria e nelle nanotecnologie vuol dire anche creare nuovo lavoro

Mauro FerrariMauro Ferrari, 52 anni originario di Padova, è uno dei massimi esperti mondiali di bioingegneria. Ed è stato fra i primi a sperimentare le nanotecnologie in ambito medico, consentendo alla lotta contro il cancro di fare molti passi avanti.

Ha iniziato il suo lavoro di ricerca quando ancora la nanomedicina non esisteva e le cure contro il cancro non erano abbastanza efficaci. Ha perso per questo una persona che amava molto. La sua reazione al dolore è stata impegnarsi anima e corpo nell’esplorazione della nuova strada appena scoperta.

È andato negli Stati Uniti, a Houston, Texas, dove oggi dirige il Methodist Hospital Research Institute, ha 1200 dipendenti e prosegue nel suo lavoro di ricerca con un’équipe qualificata che comprende anche molti giovani italiani. Anche per questo la sua è una storia che merita di essere raccontata.

Ottimizzare l’azione dei medicinali

 

Ci spiega cosa sono le nanotecnologie e perché sono così importanti?

 

Un modo per visualizzare cosa sono le nanotecnologie è pensare al gioco del Lego, al costruire oggetti con i mattoncini: nelle nanotecnologie i mattoncini che si usano sono atomi individuali, gruppetti di atomi, pezzi di molecole ovvero elementi di dimensione nanoscopica; per capirci, in un nanometro, che è un miliardesimo di metro, ci stanno tre atomi.

E noi costruiamo a nostra volta delle strutture nuove usando questi microscopici “mattoncini”. In medicina, per tornare all’esempio del Lego, queste strutture potrebbero essere delle macchinine. In questo caso avere la capacità di controllarne le parti principali a livello nanoscopico ci rende capaci, per esempio, di indirizzare i farmaci sulle cellule che si vogliono trattare e solo su quelle. Per esempio nella cura del cancro, ambito nel quale abbiamo da tempo farmaci molto efficaci, capaci di uccidere le cellule malate.

Il problema è che il farmaco iniettato al paziente nella chemioterapia finisce quasi interamente sulle parti sane del corpo e solo in minima parte sulla massa tumorale quindi i danni collaterali, pesanti e inevitabili, finiscono con il compromettere la terapia. Utilizzare le nanotecnologie consente non solo di ottimizzare l’azione dei medicinali  già disponibili rendendola più mirata, ma anche di recuperare, di portare nella clinica tutta una serie di altri farmaci che purtroppo finora non sono stati utilizzati proprio a causa dei loro effetti collaterali.

Lei nasce matematico. Quando ha cominciato a occuparsi di nanotecnologie e perché?

 

Qualche volta mi chiedono  “dove ha studiato le nanotecnologie?” In realtà quando ho cominciato, circa 25 anni fa, questo settore ancora non esisteva. Noi siamo stati fra i primi a studiarle e forse i primi ad applicarle alla medicina.

All’epoca sulla nanomedicina non esistevano testi di riferimento. Io ho cominciato a occuparmene per un evento tragico che mi ha coinvolto personalmente: la mia prima moglie, Maria Luisa, si è ammalata di cancro e, nonostante le cure, non ce l’ha fatta.

Io allora mi occupavo di oggetti molto piccoli dal punto di vista ingegneristico e avendo la capacità di progettare, costruire, caratterizzare e controllare strutture di dimensioni micro e nano ho cominciato a sperimentarne un nuovo utilizzo: ho cercato di fare in modo che veicolassero, come dicevamo, i farmaci direttamente sulle cellule malate.

Ho intuito fin da subito che questa strada avrebbe aperto possibilità senza precedenti. C’è da dire che all’inizio eravamo davvero in pochi a occuparcene poi la nanomedicina è diventata una delle discipline su cui si fa più ricerca al mondo con decine di migliaia di persone che ci lavorano sopra. La cosa è andata ben oltre le mie aspettative iniziali.

Attualmente che uso si fa di queste scoperte?

I primi nanofarmaci sono entrati in clinica 15 anni fa circa. Sono già una dozzina quelli che vengono utilizzati tutti i giorni su migliaia e migliaia di persone per curare il cancro negli Stati Uniti così come in Italia, soprattutto i tumori al seno, all’ovaio, al sistema nervoso centrale.

In realtà più o meno il 10% del mercato mondiale dei farmaci oncologici è rappresentato dai nanofarmaci. Non stiamo parlando del futuro ma del presente. Oggi assistiamo però a un’importante accelerazione della crescita in questo settore, tale che io penso che fra qualche anno la maggioranza dei farmaci in oncologia saranno nanofarmaci.

I progressi nelle cure contro i tumori

 

Sarà possibile far sì che nessuno muoia più di cancro?

 

Bisogna chiarire una cosa importante. Parliamo di cancro come se fosse un unico male da sconfiggere ma la parola cancro indica migliaia di malattie diverse. Non sono mai esistiti due cancri uguali dal punto di vista molecolare.

La nanotecnologia può dare un grande impulso alla lotta contro il cancro e credo che le generazioni successive alla nostra arriveranno a vivere in un mondo dove la parola cancro non è più una condanna a morte per nessuno. Detto questo, bisogna mantenere il problema nella giusta prospettiva: il cancro, per esempio, non è come il vaiolo per cui, una volta scoperto il vaccino, non si muore più. Il vaiolo è una malattia, il cancro presenta un quadro estremamente più complesso.

Esistono tumori che oggi si sconfiggono molto più facilmente rispetto al passato, altri invece che sono molto più resistenti all’attacco dei farmaci come i mali metastalsici contro i quali spesso la medicina non può nulla.

Fra i primi, penso ai tumori pediatrici: fino a 20 anni fa la leucemia era una condanna a morte per un bambino mentre oggi l’80% dei cancri del sangue pediatrici sono curabili completamente. Pensiamo anche al tumore alla cervice uterina che oggi tra prevenzione, vaccino e nuove terapie non uccide praticamente più nessuno nei Paesi sviluppati. I cancri al polmone, al pancreas e al cervello risultano, invece, ancora in molti casi incurabili.

E che prospettive ci sono?

Stiamo trattando con successo in laboratorio cavie che hanno tumori al seno con metastasi al polmone e al fegato, mali letali per l’uomo e che noi di routine riusciamo a curare negli animali. Questo mi dà fiducia che ci stiamo muovendo nella direzione giusta.

Quanto ci vorrà per riuscire a convincere l’ente regolatore a far distribuire i farmaci da noi sperimentati negli ospedali non lo sappiamo perché dipende da questioni che hanno poco a che fare con la scienza e più con la burocrazia e le dinamiche interne alle case farmaceutiche. La scienza per molti aspetti è pronta.

C’è bisogno però di aziende che producano e vendano questi farmaci: non possono farlo i laboratori di ricerca. Purtroppo l’industria farmaceutica italiana, che nel ventennio dopo la guerra ha conosciuto un periodo d’oro, inventando e producendo medicinali che venivano acquistati in tutto il mondo, oggi non si inventa più niente di nuovo.

Sarebbe bello veder nascere proprio da noi nanofarmci nuovi e particolari. Sarebbe anche un modo per rilanciare un settore che una volta era all’avanguardia e che oggi è praticamente fermo.

Le conseguenze della mancanza di fondi

 

 

E per quanto riguarda la ricerca?

 

Ecco un altro punto critico. In Italia non mancano gli istituti dove si fa ricerca ai massimi livelli, però come volumi d’investimento il sistema Italia è molto indietro rispetto a quello che ci si aspetterebbe da un paese che appartiene al G8. Inoltre i flussi d’investimento non seguono quasi mai dinamiche di tipo meritocratico.

La mancanza di serie politiche ha avuto conseguenze anche su un sistema di assistenza clinica che, pur escludendo i centri d’eccellenza, è in media di buon livello. Faccio solo un esempio: il nanofarmaco più importante per la cura contro il cancro è stato provato da noi negli Stati Uniti nel 2005 ed è arrivato in Italia nel 2011.

Io credo che questo ritardo sia costato molte vite e molta sofferenza, e non so spiegarmi ancora bene da cosa sia dipeso. C’è poi la questione che, con i modelli di rimborso previsti dalle normative nazionali, molto spesso i pazienti in Italia non hanno accesso a molti nanofarmaci, che ancora non sono disponibili per una ragione o per l’altra, e altrettanto spesso contattano il nostro centro di ricerca qui a Houston per risolvere il problema.

Nn c’è dubbio che gli Stati Uniti siano molto più avanti…

Diciamo che ci sono cose che si possono fare in Usa ma non in Italia. Lo dimostra la storia del Methodist Hospital Research Institute. Sono partito in Texas con tre persone; oggi ho 1200 dipendenti e guido un istituto di ricerca che credo sia l’avanguardia assoluta al mondo.

Gran parte di questo veloce successo è stato possibile grazie alle lungimiranti politiche di investimento nella ricerca del governatore del Texas Rick Perry che hanno reso questo stato un punto di riferimento a livello mondiale nella lotta contro il cancro. Lavoriamo oggi in una situazione privilegiata: non ci mancano né i mezzi né i fondi né il personale qualificato per proseguire le sperimentazioni. Basti pensare che quasi il 70% dei nuovi posti di lavoro degli interi Stati Uniti negli ultimi 10 anni li abbiamo creati qui in questo stato grazie agli investimenti sulla ricerca.

Io vorrei che anche in Italia ci si rendesse finalmente conto che l’investimento nella ricerca non è una voce opzionale da tagliare subito in tempo di crisi, ma uno strumento vitale per essere competitivi e creare nuovi posti di lavoro. In particolare nei momenti di crisi. È così che si cresce e si esce dalle crisi economiche. È questo il vero sviluppo. La nostra storia lo ha dimostrato.

 

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