Wise Society : Luca Molinari: sono un gentle(radical)man
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Luca Molinari: sono un gentle(radical)man

di di Maria Vittoria Capitanucci
31 Gennaio 2011

Architetto, critico, professore universitario, il curatore del padiglione italiano della Biennale di Venezia 2010, racconta il suo originale iter professionale, da vent'anni in continua evoluzione. Si definisce un laico che rispetta le diversità, crede nel valore dell'ascolto. E, come ha detto Alessandro Mendini, è gentile ma...

Luca Molinari, architetto foto di Marta DoreArchitetto e critico, professore associato di Storia dell’architettura Contemporanea presso la Seconda Facoltà di Architettura Luigi Vanvitelli di Napoli, Molinari si è occupato negli ultimi anni degli allestimenti e cura di diversi eventi legati al mondo dell’architettura contemporanea. Tra il 2001 e il 2004 è stato responsabile scientifico per l’architettura e l’urbanistica della Triennale di Milano e membro del comitato scientifico.Tra le sue molte altre attività e cariche c’è stata anche quella di recente curatore del Padiglione Italiano per la Biennale di Venezia, edizione 2010. Lo abbiamo incontrato per conoscerlo più da vicino e per farci raccontare quali sono le scelte e i valori che lo hanno orientato nella sua brillante carriera.

Come si descriverebbe in poche parole? Storico, critico, curatore, o altro ancora?

Mi considero uno strano “animale” dal punto di vista professionale. Nel senso che ho avuto la fortuna, e forse un’intuizione molto involontaria, di costruire per me stesso un mestiere che quasi non esisteva: mi cimento da quasi vent’anni in diverse attività: editor per l’architettura, curatore di mostre, progettista di contenuti, art director per alcuni grandi gruppi, ma anche consigliere per investitori e architetti, nonchè professore universitario. Tutto questo decidendo da subito di non fare il progettista o meglio di fare il progettista di idee e quindi mettermi, in un certo senso, di fianco all’architettura.

Santiago Calatrava, SkiraIn che modo è riuscito a percorrere questa professionalità “sui generis”? E quali ne sono state le tappe fondamentali?

Questa mia attività è cresciuta nel tempo, attraverso momenti diversi. Per esempio, ho avuto la fortuna di cominciare presto a scrivere per grandi riviste di architettura. Quando ero ancora studente universitario ho iniziato a collaborare con Domus, era la fine negli anni 80 e poi da lì, fino ad oggi, con numerose altre testate italiane ed internazionali. Sono stato tra l’altro uno dei primi ad andare a studiare, con il progetto Erasmus, in Olanda dove ho avuto l’occasione di conoscere e lavorare con il teorico dell’architettura Alexander Tzonis, uno dei miei maestri, che mi ha portato in seguito a lavorare a Deft. Da qui sono passato a Barcellona per due anni e mezzo, prima delle Olimpiadi, lavorando molto con Eric Miralles, che è stato un altro dei mie grandi riferimenti, finché ho deciso di tornare in Italia e di vivere a a Milano. Premetto che non sono milanese e dunque questa iniziativa è stata una scelta precisa che si è poi intrecciata anche con l’inizio dell’attività editoriale per la casa editrice Skira, nel 1995, ma anche la collaborazione con alcune istituzioni, come lo spazio Opos. E alla fine degli anni ‘90, è arrivata la Triennale dove ho realizzato la mostra su Santiago Calatrava. Poco dopo divenni direttore per l’architettura e l’urbanistica della Triennale, per quattro  anni, e nel  frattempo ho vinto la cattedra a Napoli, dove ho il mio corso universitario. Infine da due o tre anni dirigo lo spazio FMG, uno dei pochi spazi privati dove si fanno mostre di architettura contemporanea a Milano. E l’anno scorso c’è stata la felicissima chiamata della biennale di architettura per il padiglione Italia edizione 2010.

Considera la sua vicenda personale in linea con quella di una generazione?

La mia è stata una storia di incontri fortunati e di momenti interessanti, incrociando personaggi che mi hanno stimolato a fare sempre meglio. Del resto la mia generazione non ha avuto maestri ingombranti. E’ una generazione post ideologica che non ha potuto costruire le proprie radici nei grandi testi teorici degli anni Sessanta. Viviamo un po’ da sradicati e costruiamo i nostri percorsi progressivamente. Ma è una condizione generazionale in cui mi ritrovo e sto serenamente.
Visita del presidente Napolitano al padigliano italiano in occasione della Biennale di Venezia 2011

Esiste una questione di valori? E quali sono quelli di suo riferimento?

Vivendo in una dimensione instabile, umanamente e professionalmente, si ha bisogno di appoggiarsi ad alcuni elementi che fanno parte della propria storia, della propria vita familiare. Ho avuto una educazione cattolica, ma non sono praticante, mi considero un laico. Questo per me significa cercare di rispettare le diversità, ascoltare gli altri: parlo quattro lingue e cerco di vivere in una dimensione di ascolto il più possibile. Ritengo che questo sia un elemento importante nella condizione contemporanea e che spesso manca. Non credo nelle certezze granitiche, ma a delle domande curiose che portano a risposte aperte. Non mi convince chi usa troppo le parole “mai” o “per sempre”: nascondono una rigidità che ha portato in passato alla messa al rogo degli eretici. Credo ad una dimensione problematica, che non vuol dire però non avere convinzioni o non difendere con energia le proprie idee. Una volta Alessandro Mendini ha detto di me che sarei “un radicale gentile”. Ecco, io ritengo che si possa essere molto radicali e anche molto gentili, senza essere in contraddizione.

Italian Gold Medal, SingaporeAlla fine qual è il centro dei suoi interessi?

Beh, in tutto quello che faccio il centro è l’architettura. L’idea è che la critica in generale o lo storico, nel mio caso, possano portare visioni e idee in grado di aiutare i committenti e gli architetti “ad alzare l’asticella”, a migliorare, cioè, il grado di produzione e di domanda quotidiano sull’architettura.

Quindi un intellettuale al servizio di un certo pragmatismo…

Credo molto nel ruolo attivo del critico come colui che si affianca al committente, aiutandolo a comprendere (magari anche come spendere meglio i suoi soldi) costruendo dialoghi, lavorando con i suoi stessi processi.Tutto questo porta a risultati più solidi. Insomma, quando un operatore sceglie un architetto, se ben consigliato, sa esattamente quello che vuole, è più consapevole.
A questo proposito ritengo che la parola consapevolezza sia molto importante. Saper fare le domande giuste, sapere quello che si vuole e si cerca davvero, rappresenta uno dei grandi temi della contemporaneità, un argomento che ha molto a che fare proprio con la committenza. Da un certo punto di vista è un po’ il lavoro che ho sempre fatto e che, in maniera più strutturata continuo a condurre da quando ho fondato “via Piranesi”, lo studio multidisciplinare con la mia socia Anna Barbara.

Ailati, Biennale di Venezia del 2010

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