Wise Society : In vela per imparare a rispettare i limiti. Dell’uomo e della Terra
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In vela per imparare a rispettare i limiti. Dell’uomo e della Terra

di Lia del Fabro
7 Novembre 2011

Claudio Guerra, alpinista-velista, racconta di cosa si occupa l'associazione sportiva "Materya" da lui fondata in Sardegna

Claudio GuerraTorinese, classe 1964, Claudio Guerra è sempre stato un grande appassionato di montagna, almeno fino a quando non ha scoperto l’amore per il mare e per la vela che gli hanno, letteralmente cambiato la vita. Dopo anni di formazione e pratica ha deciso nel 2010 di fondare in Sardegna, Materya (www.materya.com) associazione sportiva e culturale per la valorizzazione dell’ambiente naturale e il “diporto sostenibile”. Lo abbiamo incontrato per saperne di più…

Ci racconta i suoi inizi come velista?

Da giovane, vivendo a Torino, facevo alpinismo e già praticavo quella che è l’etica della montagna: nessuna lattina lasciata in giro, portare i rifiuti a valle.  Mi sono avvicinano tardi alla vela, circa sedici anni fa, scoprendo solo in seguito che c’erano tante correlazioni con l’alpinismo. L’occasione si è presentata quando un collega di lavoro, che aveva da poco la patente nautica, mi invitò ad andare in barca a vela con lui… e fu un vero colpo di fulmine. Ho sentito da subito un richiamo potentissimo per il mare che per me, sino a quel momento, aveva rappresentato solo ombrelloni, ressa, musica ad alto volume in spiaggia. Ho scoperto un’altra dimensione del mare, del tutto sconosciuta e da lì ho iniziato un percorso formativo. In tre, quattro anni di attività molto intensa ho imparato ad andare a vela. Dopo qualche tempo ho preso la patente nautica e poi, circa una decina di anni fa, ho iniziato a frequentare la scuola velica francese Les Glénans, che possiede una struttura pedagogica fantastica. Qui ho ricominciato la formazione, diventando a mia volta formatore di istruttori. Una grande passione si è così trasformata anche in mestiere.

Il rispetto del mare e della natura

Nel 2010 è nata Materya. Qual è la filosofia dell’associazione?

Sì, Materya è nata lo scorso anno con l’apporto di alcuni amici ed è orientata a promuovere e realizzare un modello di sviluppo e di vita rispettoso dei temi ambientali. L’esperienza dell’associazione coincide con il mio percorso personale che, in questi anni recenti, è stato legato al mare, ma non solo. Perché ho sentito un richiamo direi spirituale nei confronti del Pianeta, ho intrecciato cammini di tanta gente che arrivava sulla barca con interessi simili ai miei, ho iniziato non a caso a fare meditazione. L’obiettivo di Materya, che è una realtà molto giovane, è tentare di condividere tutto questo insieme di esperienze, perché un conto è navigare e divertirsi, che va senz’altro bene, ma altro è farlo con grande attenzione verso l’ambiente e la natura. Mi piacerebbe che questi temi e queste energie si sviluppassero in modo ancora più forte.

Credit - Materya.com

Gli aspetti che caratterizzano l’associazione sono il diporto sostenibile e la vela consapevole. In che cosa consistono?

Quelli che vengono in barca con me spesso non si accorgono che fanno diporto sostenibile fino a quando non vedono il comportamento di altre barche. La vita a bordo non comporta rinunce. Ma esistono delle regole precise che chi sale a bordo con me deve rispettare. Prima di tutto la raccolta differenziata. Una piccola rinuncia di spazio, perché ci sono tre bidoni invece di uno, che consente però di avere sacchi di rifiuti che possono stare al sole senza produrre cattivi odori di rimanere lontani dai porti per un tempo più lungo perché il sacco di organico si riempie più lentamente. Un’altra cosa che sembra banale è l’attenzione gli ancoraggi. Quando le barche vanno via dalla rada spesso lo fanno con attaccato all’ancora un grandissimo cespuglio di posidonia, un’alga che ha un’altissima capacità di ossigenare il mare e di mantenere il fondale “vivo”, perché tra i suoi filamenti si forma una sorta di incubatrice per i piccoli pesci. Non avere più questa protezione contro i predatori significa la desertificazione dei fondali marini e la riduzione del pescabile. C’è anche un problema di sicurezza, perché l’ancoraggio su un mare di alghe può essere instabile. Fare attenzione a dove si posa la propria ancora non è così scontato e specie in agosto i fondali sono spesso devastati. Un terzo punto del diporto sostenibile riguarda l‘uso di detersivi a ridotto impatto ambientale. Ho scoperto che i prodotti bio costano poco più degli altri e sono di qualità superiore. Anche per l’igiene personale chiedo alle persone di portare saponi ecologici. Altri aspetti, più di competenza di chi comanda la barca, riguardano la pulizia della sentina, cioè del fondo barca dove si possono raccogliere olii, che poi vanno portati dal benzinaio senza fare il versamento a mare con danni a flora e pesci. E ancora, il problema delle acque reflue che in teoria, secondo una normativa comunitaria del 2005 mai applicata nel nostro Paese, dovrebbero essere raccolte dai porti così come le nuove imbarcazioni dovrebbero essere dichiarate in regola solo se hanno le vasche di raccolta. Che io sappia nessun porto italiano si è ancora dotato dei sistemi per la raccolta di acque reflue. È come se nei campeggi ogni camper versasse le acque reflue vicino al proprio mezzo. Quindi sembra normale fare il bagno in rada dove tutti scaricano, comportamento che sulla mia barca è vietato poiché si utilizzano i serbatoi delle acque nere.

Ecologia e meditazione a bordo

 

Altro punto della vela sostenibile è la valorizzazione delle aree protette, ossia quando navighiamo nelle aree marine protette come i parchi, cerchiamo di far conoscere e rispettare la normativa vigente in quelle aree, oltre a scoprire la flora e la fauna del luogo, nella speranza che dalle poche oasi protette si riparta estendendo questa sperimentazione legislativa ad altre coste del paese. Anche l’impatto a terra su coste o isole disabitate cerchiamo sia svolto in modo corretto. Un altro punto che sosteniamo riguarda la scoperta dei diversi ambienti naturali e culturali. Ad esempio, i corsi di apnea che facciamo in barca quando possibile con un naturalista, hanno un duplice aspetto: l’apnea consente di ammirare i pesci sotto la barca ma è anche un mezzo formidabile per mettersi in contatto con il proprio corpo e le proprie emozioni. Come è importante avere un atteggiamento di apertura e rispetto nei confronti degli abitanti delle coste in cui si approda. Infine no alla pesca, anche se non è una pregiudiziale alla pesca tout-court perché io il pesce lo mangio, ma nella mia imbarcazione pensiamo sia meglio lasciare questa attività a coloro che ci basano la propria economia familiare. A bordo osserviamo i pesci nel loro habitat naturale, cercando di capire se c’è un modo più rispettoso e civile per far vivere gli animali.

Crediti, Ben Meyer/cultura/CorbisNei suoi viaggi ci sono anche momenti dedicati alla meditazione come parte dell’esperienza velistica?

In barca, attraverso l’alfabetizzazione all’apnea, si praticano esercizi di respirazione e questo è già un inizio. Personalmente faccio meditazione con le ciotole tibetane e sono disponibile a fare delle sonorizzazioni che risultano molto rilassanti, magari la sera dopo la giornata di vela e mare. Arrivano poi persone che già praticano la meditazione, secondo i loro percorsi e questo consente scambi sempre molto interessanti.

Chi viene in barca con lei è sempre d’accordo con le regole del diporto sostenibile?

In linea di massima chi sale con me in barca ha grande rispetto nei confronti della tutela ambientale e nessuno ha mai posto un problema. Ho invece constatato nei diversi gruppi grande attenzione e quasi una sorta di sofferenza nel vedere cosa accade ad esempio quando una barca che leva l’ancora vicino alla nostra alza un metro cubo di alghe,  oppure di fronte a bucce di  anguria o di banane che sono gettate a mare, pensando che tanto è biodegradabile mentre è un uso molto dannoso per l’alimentazione dei pesci. Qualche tempo fa l’Unione europea aveva addirittura disposto degli incentivi per convincere i pescatori a riportare a terra le interiora dei pesci invece di buttarle a mare, proprio per evitare che entrassero nella catena alimentare. A volte, nelle zone di approdo, è normale vedere piatti usa e getta galleggiare in mare. Nella mia barca non si usano piatti e bicchieri di plastica anche perché basta un po’ di vento per vedere volare tutto via e quindi è inevitabile trovare sui fondali interi servizi di stoviglie, per non parlare dei filtri delle sigarette. Senza pensare che l’acqua di mare conserva tutto per lungo tempo, è una vera salamoia.

Valorizzare le nostre risorse

 

La vela ha cambiato la sua vita?

Sì, senza dubbio. La montagna è un’esperienza forte ma il mare l’ha soppiantata,  anche se da poco ho scoperto che in una città come Trieste mare e montagna convivono e molti alpinisti fanno anche gli skipper. Ho capito che c’è una differenza sostanziale tra i due ambienti: in montagna appena si è arrivati in cima magari con rischio, si pensa subito alla vetta più alta da raggiungere la volta successiva, cercando di superare sempre i propri limiti. Nel mare si progetta come stare dentro  i propri  limiti e non si cerca di oltrepassare i margini di sicurezza. Se il mare non lo consente non si esce con la barca. È un cambiamento di ottica.

Il cambiamento ha influenzato anche le sue abitudini quotidiane?

Il mare ha cambiato l’organizzazione della mia vita. L’ordine prima di tutto, perché in barca a vela tutto deve essere essenziale e deve stare al proprio posto perché non hai tempo da perdere per cercare le cose. E poi la barca e il suo funzionamento si giocano sull’anticipazione dei tempi e la previsione dei problemi, programmando quello che potrebbe accadere, per esempio per quel che riguarda la sicurezza. Questo è un aspetto per me molto interessante, che mi è servito per migliorare anche la qualità del lavoro che svolgo quando non sono impegnato in barca nel campo della prevenzione del rischio e della sicurezza in casi di emergenza.

In generale crede che stia aumentando la sensibilità ai temi legati alla tutela ambientale?

Faccio riferimento a un’esperienza diretta. Come molti, pensavo che il movimento “no Tav” fosse il solito movimento dei soliti abitanti che un po’ egoisticamente non vogliono le grandi opere sul loro territorio. Ma quando ho iniziato a indagare un po’ meglio, ho capito che il progetto non va in direzione del bene comune, ma ci sono ben altri interessi che lo guidano.  La cosa importante è che lì un’intera popolazione, quella della Val di Susa, ha ricostruito una propria coscienza sociale, ha iniziato a uscire di casa, a discutere come fare, ad esempio, la raccolta differenziata o dove costruire la discarica, insomma ha smesso di guardare la tv e ha ricominciato a fare società. I miei amici che vivono in quel territorio, spesso si scambiano i prodotti del loro lavoro, nel senso che chi si offre di fare il muratore magari lo fa in cambio del vino di un contadino. Sono entrato in contatto con  il riformarsi di una comunità con valori dimenticati, che magari si richiama alla società dei nostri nonni, ma dove lo scambio di risorse non è solo chiedere denari ma anche scambiare energie. Penso che costruire grandi infrastrutture sia dannoso, mentre dovremmo partire valorizzando le tre risorse che rappresentano i nostri punti di forza: il livello della ricerca e la qualità dei ricercatori che invece vanno all’estero,  l’ambiente e il patrimonio naturale di cui abbondiamo e la cultura, con le cantine dei musei piene di opere perché non abbiamo spazi sufficienti per esporle. E penso che ormai la sensibilità su queste tematiche sia una cosa reale e sia sempre più forte.

Credit - Materya.com

 

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