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Gunter Pauli: dalla green alla blue economy

di di Giacomo Selmi
31 Maggio 2010

Imprenditore belga, è la mente del network di ricerca sulle emissioni zero. La sua filosofia? Andare oltre l'economia "verde". Partendo da ciò che la natura offre per soddisfare le necessità di tutto

Gunter Pauli, economista e imprenditore belga, residente in Giappone, è la mente di Zero Emission Research and Initiative, (www.zeri.org), un network di ricerca sulle emissioni zero. Ideatore della blue economy,  ha speso più di dieci anni a investigare e sviluppare progetti per dimostrare che è possibile costruire un’impresa redditizia partendo da quello che la natura offre e soddisfacendo allo stesso tempo le necessità di tutti.

Il cuore della filosofia di Pauli può essere raccolta nella necessità di cambiamento e innovazione, parole che stanno alla base del suo pensiero e delle sue azioni.

 

Gunter-Pauli, album di dirtyboards/flickrCome descriverebbe la sua idea di blue economy?

La blue economy è basata sull’innovazione: saperne cogliere le opportunità permette al nostro ciclo produttivo di avere degli output maggiori, dei costi inferiori, e ci permette di creare un capitale sociale, che significa benefici per tutti. Ma soprattutto, permette di generare posti di lavoro. Quest’ultimo aspetto è molto importante, perché solitamente quando si parla di aumentare gli output e ridurre i costi, significa anche tagliare posti di lavoro.

In più, cosa importante, questi benefici si ottengono lavorando con quello che si ha a disposizione in natura, concetto che va molto oltre il semplice mettere la natura al centro del processo.

 

A questo punto però abbiamo un problema: come si può insegnare questo approccio – e come possiamo impararlo – in un mondo, soprattutto quello del business, che è cresciuto con una impostazione “tradizionale”?


Direi con una visione ristretta, piuttosto. I businessmen tradizionali dovranno adattarsi, per non uscire dal gioco; non c’è altra strada.

In ogni caso, l’unico modo di insegnare è lo stesso che è usato da sempre per gli MBA: i casi di studio. Dobbiamo presentare delle situazioni concrete ed esporle in modo semplice; solo così riusciamo a catturare l’attenzione del pubblico. Spiegare nel dettaglio le peculiarità scientifiche di una scoperta o di una innovazione ci fa perdere il 99% dell’audience, così come partire dalle catastrofi che verrebbero scatenate dal non seguire una certa strada.

 

Non c’è invece il pericolo che, sul lungo periodo, chi percepisce il business in modo tradizionale escluda quelli come lei con una visione più idealista?


Non sono una persona “con una visione particolare”, ho sviluppato progetti e tecnologie. Magari sono anche basate su alcune visioni, ma garantiscono una certa competitività su cash-flow, profitti o prezzi.

I programmi e i progetti della nostra Fondazione sono studiati e certificati da JP Morgan. Non sono Jeremy Rifkin, che disegna un quadro di ampio respiro, mostrando i trend emergenti e dando suggerimenti su quello che succede in USA o in Europa: identifico centinaia di tecnologie, e sulla base della loro conoscenza, della loro comprensione, dei modelli di business implicati propongo delle innovazioni concrete.

Questo è molto importante, perché innovazione nel business vuol dire cambiare le regole del gioco, non solo essere un poco più efficienti.

Il punto chiave è se stiamo preparando almeno alcune persone per la prossima generazione? O stiamo soltanto insegnando le solite cose che sappiamo?

Gunter-Pauli, album di aslives/flickr

Cosa si deve fare per non essere tagliati fuori dal gioco?

 

Quello di cui abbiamo bisogno oggi è esplorare tutte le opportunità che abbiamo a disposizione. Se vediamo le opportunità, allora possiamo applicare la filosofia di Saint-Exupery: se vuoi far costruire la migliore barca di sempre, non insegni come costruire la barca, ma racconti ai giovani dei bellissimi viaggi che faranno in giro per il mondo: e la migliore delle barche verrà costruita.

Dobbiamo esporre le idee in modo che le persone ne siano ispirate.

Il punto chiave non è dire: “questo è male, questo è bene”, ma dire: “possiamo fare meglio”.

Oggi nel Supply Chain Management (la gestione della catena di distribuzione) tutto è concentrato sul fare le cose in modo più economico, più sicuro e prevedibile. Ma questo approccio riduce solamente i costi: non si stanno generando più ricavi e un giro di affari più ampio. E quindi si perdono opportunità per creare ricchezza per tutti. È come se la microeconomia non parlasse con la macroeconomia, creando una frattura tra il business e l’effetto che questo può avere a livello globale.

 

Si torna quindi alla contrapposizione tra il business tradizionale e la blue economy…


Il business di oggi non consente miglioramenti, ma solo cambiamenti ai margini. Si dice spesso: lasciateci fare revenue, lasciateci guadagnare il più possibile, di una parte di questo guadagno beneficerà anche la società.

Noi invece dobbiamo cambiare il business model stesso, far si che tutta la società ne tragga un beneficio diretto, e non indiretto.

 

Pensa che le cose potrebbero essere differenti oggi, in un tempo segnato da una delle maggiori crisi economiche degli ultimi 50 anni – se avessimo seguito le sue idee?


No, sicuramente non avremmo potuto prevenire la crisi. Ogni tanto c’è bisogno di sentire che si è arrivati al limite, altrimenti la “mente innovativa” non riesce a innescarsi. Se le cose vanno bene, e si sta complessivamente bene,  la gente non vuole cambiare.

Attenzione però: la gente non cambia durante una crisi. Nei momenti di difficoltà ci si comporta in modo irrazionale e ci si aggrappa a quello che si conosce. Una volta finita la crisi, quando si ritorna a essere razionali e si tende a riabbracciare quello che si sa, che si può scatenare il cambiamento.

Dal mio punto di vista non abbiamo bisogno di una crisi per transitare verso la blue economy, abbiamo bisogno di realizzare che quello che stiamo facendo non ha senso. E non perché è sbagliato, ma perché c’è qualcosa di meglio.

Dobbiamo cambiare il modo di pensare: non ci serve l’irrazionalità, ma un approccio lungimirante basato su evidenze scientifiche. E la “visione” è molto semplice: vogliamo vivere in un mondo che è sostenibile; una volta che siamo d’accordo con questo, si cercano le innovazioni migliori.

Ed è qui che si vede l’imprenditore, nella capacità di avere un system thinking, un pensiero sistemico.

In fin dei conti la blue economy è proprio questo: visto che in pochi capivano il termine pensiero sistemico, ho coniato l’espressione blue economy. Perché è diversa dalla green economy: la green economy non è male, la blue economy è meglio.

 

 

 

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