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Giorgio Donegani: impariamo a leggere le etichette

di di Francesca Tozzi
10 Settembre 2010

Le confezioni dei cibi che riempiono i nostri carrelli possono aiutarci a fare una spesa sana. Basta saper interpretare l'elenco degli ingredienti. Un esperto in tecnologia alimentare ci aiuta a distinguere tra il vero e il finto genuino...

Giorgio Donegani, direttore scientifico di Food & SchoolNonostante gli scandali alimentari non siano mancati, negli ultimi anni i livelli di sicurezza e di qualità degli alimenti sono in generale aumentati. Per riconoscere la qualità, l’etichetta rimane uno strumento fondamentale di comunicazione, una sorta di carta d’identità del prodotto pensata per fornirne al consumatore le informazioni fondamentali.

Ma sappiamo davvero leggerla? Qualche utile risposta e dritta in proposito ce la da Giorgio Donegani, direttore scientifico di Food & School e Membro del Comitato tecnico scientifico “Scuola e Cibo” del MIUR. In primo luogo, ci dice, è necessario saper distinguere sulla confezione ciò che è comunicazione suggestiva e ciò che è informazione: quest’ultima è concentrata nell’etichetta, ed è regolamentata dalla legge. Abbiamo così a disposizione gli elementi fondamentali per valutare la qualità di un prodotto, a cominciare dal nome

 

Perché il nome è così importante?

 

Kickstart Super Juice, album di avlxyz/flickrBisogna sapere cosa stiamo mangiando o bevendo. Un esempio significativo è dato dai succhi di frutta, categoria che comprende tutta una serie di sottotipi. Fra quelli in brik troveremo prodotti che si somigliano perché magari riportano l’immagine dello stesso frutto tagliato a suggerire freschezza e natura mentre poi leggendo meglio l’etichetta si scopre che uno è un succo, e quindi ha il 100% di frutta, l’altro è un nettare, e ne contiene il 50% mentre magari nel terzo, bevanda a base di, la percentuale sarà ridotta a 12.

 

Il secondo elemento che non deve mai mancare in etichetta?

 

Senz’altro il nome del produttore e il luogo di produzione. Poter risalire a chi ha la responsabilità del prodotto è importante quando scoppia un caso, ma il più delle volte serve a togliere dal mercato i lotti difettosi una volta che si è risaliti all’origine del problema. Il punto centrale rimane l’elenco degli ingredienti, per quanto non sia ancora possibile conoscerne le quantità.

 

Ovvero?

 

A differenza delle etichette del tessile, dove si è obbligati a specificare che un capo è, per esempio, 70% in cotone e 30% fibra sintetica, di un prodotto alimentare – a eccezione di quelli dove un ingrediente è indicato nel nome, come per esempio nel caso di “biscotti al burro” o “frollini al cacao” – possiamo solo sapere cosa contiene, tenendo presente che gli ingredienti devono per legge essere disposti in ordine decrescente di quantità il che significa che, se una merendina vanta in confezione di essere “ricca di latte” e poi il latte non compare fra i primi ingredienti ma solo dopo gli zuccheri e i grassi, il consumatore dovrà ragionare sopra l’effettiva qualità di quel prodotto. Lo stesso farà nel caso dovesse acquistare una carne in scatola dove la gelatina è indicata come ingrediente primo, e quindi prevalente rispetto alla carne. Insomma se i migliori ingredienti si trovano alla fine ci sarà un perché, ma la gente non ci ragiona sopra…

Vending Machine di Phillie Casablanca/flickr

Per quale ragione secondo lei?

 

Perché l’etichetta rappresenta ancora uno scoglio, se si vuole leggerla bene ma anche capirla davvero. Non è un caso che, secondo quanto emerge da recenti ricerche, i consumatori siano attratti dalla semplicità e privilegino le etichette con formulazioni brevi e semplici perché nel loro percepito questo significa un prodotto più naturale e genuino. Per cui fra un crescenza senza conservanti e una che ne contiene, con relativo elenco, sceglieranno probabilmente la prima anche se costa un po’ di più.

 

Food labels, album di keetsa/flickrMa un’etichetta con più informazioni non è meglio?

 

Non è detto che se è più lunga sia necessariamente più dettagliata dato che per legge le informazioni di base devono esserci tutte. E inoltre crea diffidenza. Il “lungo” spesso sconcerta e scoraggia. Faccio un esempio, chi legge gli ingredienti della classica torta della nonna, prodotta però industrialmente, si aspetta di trovare tra gli ingredienti zucchero, burro, uova ma di fronte all’amido modificato, agli esteri degli acidi grassi, e ai diversi stabilizzanti, emulsionanti, conservanti e antiossidanti non sa che pensare. Sono sostanze che non si trovano in una cucina. Nei prodotti da forno è comune trovare lo zucchero declinato in diverse tipologie, dal fruttosio allo sciroppo di glucosio, e nello stesso prodotto il burro insieme ai grassi vegetali e a quelli idrogenati. L’elenco si allunga a dismisura. È chiaro che alla fine sceglie i prodotti nei quali riconosce la ricetta casalinga.

 

E gli additivi?


Gli additivi vengono indicati in etichetta con la loro funzione seguita dal nome scientifico o dalla sigla che ne indica la categoria, E (che sta per Europa) più un codice numerico. Al momento l’EFSA, l’autorità europea per la sicurezza alimentare, sta facendo un’attenta revisione di queste sostanze che sono state approvate sulla base di verifiche troppo vecchie. Sono allo studio possibili correlazioni fra additivi e varie forme di allergie, tumori, sensibilizzazioni. Pensiamo ai coloranti azoici che servono a dare artificialmente il colore arancio e giallo e che sono nell’occhio del ciclone perché sembra siano responsabili di alcuni problemi come l’accentuazione dell’iperattività nei bambini, soprattutto se associati a un certo tipo di conservanti. L’E128 è potenzialmente cancerogeno. Per questo, le aziende che usano coloranti naturali preferiscono indicarne il nome scientifico, come nel caso del betacarotene utilizzato per dare più colore all’aranciata. Costa di più ma è naturale

 

Delicatessen, album di Jose and RoxanneChe dire dei nitriti e nitrati dei salumi?

 

Nei salumi e nelle conserve a base di carne rappresentano dei conservanti efficaci contro il botulino, un microbo che produce tossine pericolose; d’altra parte, soprattutto se presenti in miscela, possono trasformarsi nello stomaco in nitrosamine, sostanze nocive per l’organismo. Tra i due mali si sceglie quello minore. Una volta però riconosciuta la loro presenza, si può tentare di ridurre in un’ottica complessiva il consumo degli alimenti che li contengono, acqua compresa. Si possono ridurre anche in produzione ma non eliminare del tutto. A volte, invece, gli additivi si usano anche se non servirebbero o si potrebbero sostituire con quelli naturali…

 

Perché costano meno?

 

No. Perché li vuole la gente, senza saperlo. Faccio qualche esempio. La carne lessata in scatola è rossa perché viene applicato un conservante che la rende tale e che le moderne tecnologie di sterilizzazione hanno reso di fatto inutile. Eppure lo stesso prodotto proposto con il colore naturale della carne bollita non ha avuto successo. Il lancio sul mercato di un aperitivo trasparente e non arrossato artificialmente dai coloranti azoici è stata un fallimento nonostante al blind test i due prodotti risultassero uguali nel gusto. Lo sciroppo di menta è trasparente ma il mercato chiede il verde pieno del blu e del giallo mischiati mentre rifiuta la colorazione naturale con la clorofilla perché poco brillante. Facciamoci furbi e recuperiamo il naturale: sarà meno bello ma è più sano.

 

E il famigerato glutammato monosodico?

 

È un esaltatore di sapidità presente normalmente in alcuni prodotti, come il dado da brodo; può diventare un indicatore di minor qualità se contenuto in prodotti complessi per esempio i ravioli con ripieno di carne: lì è stato aggiunto probabilmente perché la quantità di carne contenuta nei ravioli non era sufficiente a dare loro sapore. Non va dimenticato che spesso l’additivo va a compensare le carenze qualitative della materia prima. Quindi, sarà banale dirlo, ma meno ce ne sono, meglio è.

Shopping trauma!, album di Elsie/flickr

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