Wise Society : Dal Bambino Gesù la serie TV tra scienza e speranza
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Dal Bambino Gesù la serie TV tra scienza e speranza

di Fabio Di Todaro
14 Marzo 2017

Simona Ercolani, autrice del programma di Raitre ambientato tra le corsie dell'ospedale pediatrico di Roma, racconta la vita dei piccoli pazienti e dei loro genitori

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Manifestazione del dolore? «No, nel mio programma “I Ragazzi del bambino Gesù” emerge la forza della scienza che oggi poniamo troppo spesso in discussione», sostiene Simona Ercolani.

A chi ha velatamente lasciato intendere di essere contrario alla manifestazione del dolore, risponde che «in realtà a emergere è l’amore, piuttosto che la sofferenza». E se le si chiede quali siano gli obiettivi de «I ragazzi del Bambino Gesù», la serie di documentari in onda ogni domenica in seconda serata su Rai 3 (22,50), non deve sorprendere come del novero faccia parte «la forza della scienza, che oggi poniamo troppo spesso in discussione». Simona Ercolani, 49 anni, autore di quel capolavoro che ancora oggi è «Sfide» e regista della nuova serie che racconta la malattia dei più piccoli dalle corsie dell’ospedale pediatrico più grande d’Europa, lo dice senza fraintendimenti: «Torniamo a far valere la nostra razionalità. I medici vanno ascoltati ed eventualmente pure abbracciati. Ho visto oncologi piangere, dopo essersi rivisti in tv».

Com’è nata l’idea di questo documentario in pillole?

Sono una mamma, prima che una regista, e nella mia vita ho incrociato a più riprese l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Ho sempre avuto l’impressione che fosse un luogo speciale e da tempo pensavo che raccontare la sua quotidianità potesse essere un lavoro di interesse nazionale. La serietà, la severità e l’accuratezza che ho riscontrato nel momento in cui ho presentato il progetto ai vertici della struttura mi hanno convinto che fosse giunto il momento di realizzare questo desiderio. Il nostro obiettivo è raccontare l’autenticità della malattia entrando in punta di piedi in una realtà fatta di sofferenza, ma pure di grande speranza.

Non solo dolore: l’obiettivo del programma “I ragazzi del Bambino Gesù” è quello di raccontare l’autenticità della malattia entrando in punta di piedi in una realtà fatta di sofferenza, ma pure di grande speranza, Foto ufficio stampa I ragazzi del Bambino Gesù

Quale realtà ha trovato nei diversi reparti?

Un intreccio unico di eccellenze: umana e scientifica. Questo capolavoro emerge a diversi livelli: nei rapporti tra i medici, tra i pazienti, tra questi e gli specialisti. Ma a colpirmi di più, in realtà, è stata la forza che si genera tra le famiglie. Siamo abituati a pensare agli ospedali come a dei luoghi in cui si annega nella solitudine, ma negli ospedali pediatrici la realtà è diversa.

In che senso?

I bambini, come le donne, sono figli e mamme di tutti. La rete di sostegno che si crea negli appartamenti messi a disposizione delle famiglie è qualcosa che ci permette di apprezzare le vere priorità della vita. E dal momento che oggi la battaglia contro i tumori dell’infanzia e dell’adolescenza è più facile vincerla che perderla, dopo la malattia ho avuto modo di apprezzare famiglie migliori rispetto a quanto non lo fossero prima.

È merito di «Braccialetti Rossi» se oggi si parla di questi temi più che in passato?

Sì, ci ha permesso di capire che questi problemi possono essere raccontati, senza per forza cadere nel pietismo. Le storie dei pazienti, assieme a quelle degli altri protagonisti, sono raccontate senza mai dimenticare che questi ragazzi non sono la loro malattia, ma nella sfortuna di averla incrociata hanno la capacità di vedere le cose con maggiore lucidità. Girando in corsia, mi sono rimasti impressi gli sguardi pieni d’amore dei protagonisti. E in quanto madre, ho potuto scoprire quanto grande sia la sensibilità dei figli nei confronti dei genitori. Ho visto ragazzi malati, sopratutto nelle prime fasi successive alla diagnosi, prendersi cura delle loro mamme e dei loro papà.

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Dolore: “Oggi la battaglia contro i tumori dell’infanzia e dell’adolescenza è più facile vincerla che perderla”, sostiene Simona Ercolani Foto ufficio stampa I ragazzi del Bambino Gesù

In che modo ritiene che una simile produzione possa essere formativa anche per i ragazzi?

Stiamo riuscendo ad abbassare l’età media dei telespettatori di Rai 3. Sono contenta, perché è importante che i ragazzi ascoltino la voce di chi spesso non ha spazio per farsi ascoltare. E poi abbiamo un’ora a settimana per riflettere sui concetti di vita e morte: ritengo che sia un grande esercizio di consapevolezza, da effettuare già a partire dell’adolescenza».

«Sfide» è stato il prodotto della giovinezza, «I ragazzi del Bambino Gesù» quello della maturità: quale dei due lavori le è piaciuto di più?

Uno è il primogenito, grazie a cui ho potuto esercitarmi per anni nel raccontare una storia in TV. Ma come intensità, non può esserci paragone. Questo lavoro è il frutto della maturità, in cui il racconto per certi versi risulta anche più facile. Non ci sono difficoltà nel restituire la realtà agli spettatori. È come se di fronte avessimo una serie di puntini: a noi è toccato soltanto unirli.

Twitter @fabioditodaro

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