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Alberto Cairo: l’Afghanistan è casa mia

di di Francesca Tozzi
26 Ottobre 2010

Il fisioterapista piemontese, candidato al Nobel per la pace 2010, racconta in un nuovo libro i suoi vent'anni a Kabul, vicino alle vittime delle mine inespolse. L' inizio è difficile, ma nel tempo l'attività diventa sempre più coinvolgente. Perchè, racconta, aiutare un altro essere umano a camminare di nuovo, ripaga di tutto. Anche della paura delle bombe e delle tragedie di una guerra terribile. Che deve finire

Alberto Cairo, fisioterapistaAlberto Cairo, 52 anni, responsabile dei centri di riabilitazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Afghanistan vive a Kabul dal 1990. Laureato in legge e fisioterapista è uno dei personaggi più stimati e autorevoli del mondo della cooperazione. Tanto che il suo nome era stato inserito nella lista dei candidati al Nobel per la pace 2010. Nel suo ultimo libro appena arrivato in libreria, Mosaico afagano, (edito da Einaudi) racconta vent’anni di vita e lavoro a Kabul dove dirige un programma a favore delle vittime delle mine inesplose e ha aperto cinque centri di riabilitazione fisica in cui hanno trovato cure e attenzioni oltre 95 mila pazienti. Eppure lui, schivo com’è, non vuole nemmeno essere chiamato dottore e non ama parlare di sè. La sua, però, è una storia bellissima che merita di essere raccontata perché ci vuole coraggio per reinventarsi una vita, rinunciare a una carriera di avvocato e mettere la propria esistenza al servizio di una popolazione inerme e sfortunata in un Paese difficile e lontano. Una storia che tiene alta la voce della pace e della dignità in mezzo al frastuono, al dolore e alla tragica assurdità della guerra.

 

Cosa c’è dietro la sua scelta di andare a lavorare per la Croce Rossa?

 

Dopo la laurea in legge sarei dovuto diventare avvocato o magistrato. Sono un tipo logico e mi piace l’idea di mettere ogni cosa al suo posto, per questo la legge mi entusiasmava. La fisioterapia l’ho scoperta per caso, quando un mio amico che andava a dare una mano nel reparto anziani del Cottolengo di Torino mi chiese di accompagnarlo. Lì ho conosciuto un uomo che metteva in piedi i pazienti anziani e debilitati facendo loro eseguire semplici esercizi. Non ho visto mostri ma un mondo di persone poverissime e abbandonate, un mondo di cui nell’ingenuità dei miei vent’ anni nemmeno sospettavo l’esistenza. E ho capito che la fisioterapia non era solo fare massaggi agli atleti ma aiutare davvero persone in difficoltà, così mi ci sono appassionato.

 

Libro appena arrivato in libreria, Mosaico afagano, (edito da Einaudi)Poi cos’è successo?


Lavoravo in un ufficio legale e avevo delle prospettive di carriera ma mi sono chiesto: è quello che voglio? Ho capito che desideravo un lavoro capace di conciliare la mia passione per i viaggi con l’idea di essere d’aiuto, lavorare ovunque ci fosse bisogno, volevo diventare un vero fisioterapista. Così mi sono licenziato e dopo quattro anni di studio sono andato in Sudan a lavorare con le missioni. In tre anni ho imparato molte cose. L’Africa era nel mio cuore, un posto bellissimo ma anche pieno di problemi. C’era tanto da fare. All’Afghanistan non avevo pensato mai…

 

Però è diventata la sua seconda patria…


Sì e di nuovo per caso. Tornato in Italia scrissi a molti enti e associazioni. La Croce Rossa Internazionale di Ginevra mi rispose subito dicendo che avevano bisogno di un fisioterapista a Kabul. Così nel 1990 è cominciata la mia nuova vita in un Paese di cui sapevo solo quello che dicevano i telegiornali. Non ero preparato al vero Afghanistan.

 

Com’è stato l’approccio a una realtà così diversa dalla nostra?


Molto difficile all’inizio perché era un posto nuovo, non parlavo la lingua degli afgani, e fra loro pochi conoscevano l’inglese. Lavoravo all’ospedale di guerra e al centro ortopedico dove si facevano gli arti artificiali. Non avevo mai visto prima una persona ferita in un conflitto, patologie e mutilazioni come quelle, indescrivibili, ma ogni giorno in ospedale, fra errori e incertezze, mi sentivo sempre un po’ più utile finché ho capito che mi trovavo esattamente dove volevo essere, un senso di pienezza aveva sostituito il disagio. Era il ‘92 e a Kabul le bombe cadevano vicinissime. Se fosse successo all’inizio non so se sarei rimasto, ma ormai quella era casa mia.

Centro di riabilitazione Croce Rossa in Afghanistan

Ha trovato resistenze e diffidenza nei suoi pazienti afgani?


No, al contrario. I feriti di guerra che ho seguito nella riabilitazione mi trattavano con gentilezza, nel loro sguardo leggevo da subito una fiducia totale, ero lo straniero che veniva ad aiutarli. Si mettevano nelle mie mani senza riserve ma ero io a sentirmi insicuro e inadeguato. Quello che hai letto e studiato sui libri ti serve poco di fronte a una persona dal corpo devastato perché è saltata su una mina. Avevo bisogno di aiuto e l’ho chiesto ai miei colleghi: mi hanno trasmesso le loro tecniche, ma anche come trattare e toccare i pazienti nel rispetto della loro cultura. Ogni giorno mi ripetevo «devo trovare il modo di arrivare a quella persona». La sensazione che stai aiutando un altro essere umano ti ripaga di tutto, anche se si tratta soltanto di piccoli miglioramenti.

 

Centro di riabilitazione Croce Rossa in AfghanistanCosa l’angoscia di più?


Che la guerra non sia ancora finita e che continuano ad arrivare al centro di riabilitazione persone non solo ferite nel corpo ma soprattutto nell’anima; disperati perché in Afghanistan chi è senza braccia o senza gambe è destinato alla fame, alla miseria. Ma questo è anche l’aspetto che mi scalda il cuore: assisterli nella riabilitazione fisica e poi aiutarli a trovare un lavoro o insegnargliene uno, vedere che ricominciano a vivere.

 

E da qui nasce il vostro programma a favore delle vittime degli ordigni inesplosi…


Si, nei nostri centri di riabilitazione diamo lavoro solo a disabili; io la chiamo “discriminazione positiva”: medici, fisioterapisti, infermieri, cuochi sono tutti ex pazienti. Curiamo la loro istruzione e formazione perché il reinserimento sociale è importante quanto la riabilitazione fisica. Non si tratta solo di ricostruire un arto, ma una vita intera. È una cosa entusiasmante per noi e crea un clima di empatia tra pazienti e medici. Dona loro speranza perché chi ha subito una mutilazione e viene assistito e curato da qualcuno che è su una carrozzina o senza un braccio trae incoraggiamento dal vedere che è davvero possibile ricominciare. È un aiuto psicologico importantissimo nel processo di guarigione.

 

Che visione ha del futuro?


Qui in Afghanistan nessuna delle parti in guerra è abbastanza forte per vincere: devono capire che se non si riuniranno intorno a un tavolo non ci sarà futuro per questo Paese. Ma ho molta fiducia nella gente. Gli afgani sono dei grandi lavoratori e imparano in fretta; d’altra parte non è difficile spiegare a un disabile cos’è una protesi e come funziona. Il mio rapporto con loro è diventato sempre più schietto pur nell’affetto che ci lega: sono molto critico nei loro confronti ma con il tempo ho imparato ad ascoltarli, a comprendere davvero i loro bisogni e a farmi consigliare. La collaborazione è la base del nostro lavoro: non possiamo fare i colonialisti umanitari che dicono «facciamo così e basta» perché a lungo termine non funziona. Questo programma, già attivo da vent’ anni, andrà avanti per altri cinquant’anni e saranno gli afgani in futuro a decidere in piena autonomia, a prenderne in mano le redini. E un giorno si riprenderanno tutto.

Kabul, album di pthread1981/flickr

Croce Rossa in Afghanistan
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