Wise Society : Architetti Senza Frontiere: l’architettura solidale e compartecipata

Architetti Senza Frontiere: l’architettura solidale e compartecipata

di Andrea Ballocchi
25 Agosto 2017

La onlus italiana di esperti in architettura porta il proprio aiuto nelle aree critiche del mondo, fornendo professionalità e dando vita a progetti concreti

Non ci sono solo i Medici senza frontiere. Anche gli architetti possono scegliere di destinare una parte del loro tempo libero per attività di volontariato in contesti dove si renda necessario un loro intervento. Da questo presupposto è nata nel 1998 in Italia la onlus Architetti Senza Frontiere, dall’esperienza originatasi in Francia circa 20 anni prima.

Oggi questa organizzazione conta una cinquantina di sedi in tutto il mondo e promuove azioni in aree territoriali critiche per innescare processi finalizzati allo sviluppo sostenibile e al potenziamento delle comunità locali. In Italia, la sede principale è a Milano, dove ASF Italia conta su 60 soci circa. C’è poi una sede in Piemonte, Veneto, Friuli e una, appena nata, tra Sicilia e Calabria. Più precisamente, queste realtà sono impegnate nello Sviluppo Umano attraverso la funzione sociale, equa, culturale e ambientale dell’architettura, e attraverso la costruzione e la tutela del patrimonio storico e urbano, principi raccolti nella Carta di Hasselt a cui tutte le associazioni Asf devono fare riferimento.

architetti senza frontiere

Nata nel 1998 in Italia, la onlus Architetti Senza Frontiere promuove azioni in aree territoriali critiche per innescare processi finalizzati allo sviluppo sostenibile e al potenziamento delle comunità locali, Foto: ASF Italia

Architetti senza frontiere: quando l’architettura diventa sostenibile e compartecipata

«Architetti Senza Frontiere è strutturato come un network, in cui si condividono alcuni principi, ma si lavora in autonomia», spiega Camillo Magni, presidente della onlus italiana. «Il modello cui si fa riferimento nasce dalla volontà di prendere la propria specificità professionale e capire se può essere utile al mondo della cooperazione. La domanda che ci poniamo è: essere oggi architetti ha un valore deontologico, ma forse abbiamo anche un peso sociale che ci spinge anche a lavorare anche sull’etica di ciò che facciamo e ad ampliare le nostre azioni nel confronto tra professioni e società».

Un aiuto anche all’Italia

Lo stesso presidente spiega come l’aspetto fondamentale è cambiare il proprio punto di vista una volta tornati nel proprio mondo «oltre al fatto che anche in Italia interveniamo come Architetti Senza Frontiere in contesti che lo richiedono»: a Ragusa si sta concludendo un progetto durato tre anni in cui si è svolta azione di formazione professionale a migranti presenti sul territorio legata ai temi del cantiere sia della falegnameria. È stata recuperata una cascina nella provincia e ora le persone formate hanno costituito delle cooperative di lavoro autonomo: una sorta di guida all’auto imprenditorialità.

«Allo stesso modo su Milano partirà prossimamente un progetto con il campo rom per la costituzione di una biblioteca mobile, che faccia da ponte tra l’accampamento, legale ma confinato rispetto al tessuto urbano e la città stessa» spiega Magni.

Architettura solidale significa compartecipazione

Nei progetti di Architetti Senza Frontiere appare spesso la parola compartecipazione: «cerchiamo di mettere a sistema delle competenze già esistenti sul posto con tecnologie magari non conosciute e che potrebbero integrarsi bene; oppure, come in Senegal, localmente sono presenti delle risorse in parte dimenticate o utilizzate per altri fini. In quei casi portiamo, da tecnici, la nostra professionalità sul territorio in cui operiamo».

Nel caso della scuola in Senegal, il sapere valorizzato è stato prima di tutto l’impiego di una impresa edile locale, già in grado di costruire un muro di mattoni. Ma anziché utilizzare materiali edili tradizionali che non garantiscono nessun comfort termico si è deciso di usare l’argilla cruda presente in loco, utilizzata fino ad allora per la costruzione dei forni tradizionali per il pane. Una scelta prima di tutto attenta all’ambiente: «Il fatto di non cuocere il materiale è non solo una scelta sostenibile ma necessaria, in zone a rischio di desertificazione».

Architetti senza frontiere significa anche emancipazione per la popolazione

Circa il tempo da mettere a disposizione non c’è una regola precisa: i fattori riguardano la motivazione personale, il tempo e le esigenze necessarie per l’attuazione del progetto. Ogni progetto reca in sé una esperienza sensibile.

architetti senza frontiere e sviluppo ostenibile

Per la costruzione della scuola del villaggio di Mbakadou, in Senegal Architetti senza Frontiere hanno coinvolto molte donne in progetto di emancipazione attraverso l’architettura, Foto: Architetti Senza Frontiere

Per esempio, Beatrice Galimberti, consigliere dell’associazione, racconta un paio di aneddoti legati alla scuola primaria per il villaggio di Mbakadou, in Senegal: «in Senegal, in un contesto predesertico, caldo e secco, la prima aula scolastica costruita, precedente al nostro intervento, era più alta rispetto alle capanne del villaggio, quindi proiettava un’ombra più ampia. Pertanto gli abitanti del villaggio ci si riunivano per trovare riparo dal sole, dato che le capanne non fanno pressoché ombra. Le persone avevano preso l’abitudine, nelle ore più calde, di trasferirsi nei pressi dello stabile, all’esterno. Ora che la scuola è stata ultimata e coperta, lo spazio di 77 metri quadri ospita gli abitanti del villaggio, circa 500 persone che a turno vengono qui, specie nel periodo di ramadan a cercare sollievo e riposarsi mentre gli operai lavorano», segno concreto dell’apprezzamento della scuola come luogo da vivere e non solo per l’insegnamento.

«Sempre nel caso della scuola di Mbakadou, il progetto è stato seguito da tre donne architetto; le donne del villaggio hanno deciso di far parte del cantiere di loro spontanea volontà. Si sono poi formate squadre per lavorare a singole parti, dalla realizzazione degli intonaci con canne alla formazione del tetto di paglia e a piccoli lavori di carpenteria. Quindi nel giro di poco tempo le donne sono entrate nel cantiere, lavorando attivamente», dimostrando che l’architettura può essere anche un veicolo di emancipazione.

L’esempio della scuola in Senegal

Tornando al progetto della scuola senegalese, nel 2011 Associazione di Solidarietà Dimbalente, costituita da senegalesi che abitano a Voghera, e Associazione Insieme hanno costruito la prima aula della scuola primaria a Mbakadou, villaggio di origine di uno dei soci di Dimbalente. L’aula è stata costruita con gli standard locali, ossia: mattoni in cemento, tetto in lamiera. Pertanto, pur essendo fondamentale per avere permesso ai bambini del posto di andare a scuola per la prima volta, presenta dei problemi tecnici dal punto di vista del comfort climatico e dell’erosione del basamento dovuta ai venti desertici. Dimbalente e Insieme hanno contattato Architetti Senza Frontiere Italia per costruire insieme un progetto dalle caratteristiche climatiche e strutturali migliori, che valorizzasse l’uso di materiali e manodopera locali, recuperando e reinterpretando i saperi tradizionali locali. Nel 2017 è stato cominciato il cantiere della prima nuova aula, che si sta concludendo proprio in questi giorni, dopo la stagione delle piogge saranno avviati i lavori per altre due aule. Del progetto ne beneficieranno gli abitanti locali e anche i villaggi vicini, in un raggio di cinque chilometri.

architetti senza frontiere: la scuola in Senegal

Bambini della scuola di il villaggio di Mbakadou, in Senegal dove ArchitettiSenza frontiere sta ricostruendo la scuola con materiali locali, Foto: ASF Italia

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